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IO CHE AMO SOLO TE – La recensione

Gianluca Castagna | Ischia – Il cinema italiano è a corto di titoli, oltre che di idee. Così il canzoniere tricolore è diventato preziosa terra di conquista. Stavolta tocca a “Io che amo solo te”, una delle più belle canzoni di Sergio Endrigo. Prima il romanzo (best seller) di Luca Bianchini, ora il film di Marco Ponti con lo stesso titolo. Con due protagonisti come Riccardo Scamarcio e Laura Chiatti, non può che essere una storia d’amore. In mezzo a tante (altre) più o meno travagliate, all’interno di un paese/serra arretrato e incorniciato dal sole come ogni presepe da cartolina. Del resto siamo in Puglia, Polignano a Mare, e l’Azienda autonoma del Turismo si starà sfregando le mani per l’ottimo lavoro fatto dalla Film Commission.
Un attacco di droni non avrebbe saputo far meglio: vedute aeree della località campeggiano sul grande schermo con alti tassi di telegenia. Tra le strade pittoresche di Polignano scorrazzano in Vespa (senza casco) i due promessi sposi. Figli, a loro volta, di due innamorati vintage (Michele Placido e Maria Pia Calzone), il cui matrimonio non s’aveva da fare e quindi non si è fatto. A distanza di tempo, ancora sguardi dolci e tanti rimpianti.
Io che amo solo te , io mi fermerò e ti regalerò quel che resta della mia gioventù”. Endrigo non è proprio fuori luogo, anche se, in piena cerimonia, a sollecitare il lento malandrino è l’ugola di Alessandra Amoroso, nemmeno troppo sguaiata come al solito.

alessandra-amoroso-canta-endrigo-in-io-che-amo-solo-te-trailer-ufficiale-del-film-che-segna-il-suo-debutto-nel-cinemaL’appuntamento si avvicina, la tensione sale. A poche ore dalle nozze Scamarcio subisce qualche tentazione di troppo, la Chiatti pure (col fotografo), inevitabili prove tecniche di scenate di matrimonio con inflessioni dialettali di dubbia provenienza. La vicina di casa spettegola come vuole il copione, il fratello dello sposo torna a casa con la coda tra le gambe manco fosse stato mandato a Guantanamo a espiare chissà quale crimine (il coming out – chiaramente – è dietro l’angolo), la zia Dora ha volto e tic di Luciana Littizzetto deportata sul set direttamente dal salottino di Fazio. La drammaturgia oscilla tra i vari personaggi della favola come una pallina da ping pong: dieci minuti a te, un quarto d’ora a me, due secondi all’amica lesbica, venti minuti alla resa dei conti. Non sono tanto le frasi ad effetto (“i democristiani non sono mai morti!”), i pruriti moralisti, il minestrone ozpetekiano, la desolante mancanza di chimica tra Scamarcio e Chiatti (perfetti solo sulla carta!) a rovinare la cosmesi del progetto. Manca il ritmo, soprattutto. L’ingrediente connaturato al genere che qui è sostituito da un velleitario zigzagare tra tematiche che non si vogliono davvero raccontare. Impossibile armarsi di pazienza patriottica per esplorare metri di pellicola che vogliono piacere esattamente per la loro liscia fatuità.

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