LE OPINIONI

IL COMMENTO Che il “pianeta donna” non si riduca all’8 marzo

DI GIANNA GALASSO

Periodicamente ci troviamo ad affrontare il ruolo della donna nella nostra società. Ormai è consuetudine o d’ obbligo, parlarne due volte l’anno. Al 25 di novembre, per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne ed oggi, per la giornata internazionale della donna. A seconda delle occasioni,  rivolgiamo l’attenzione ai casi di violenza di genere o passiamo a ricordare, come in un lungo elenco, le disparità esistenti tra uomo e donna. Si citano dati, statistiche, studi vari, si avanzano proposte e si ricorda quanta strada ancora ci sia da fare. Ogni anno si ricorda la ricorrenza della festa delle donne, volendo sottolineare sempre che la donna non può essere discriminata o sottovalutata, perché nella sua esistenza -la donna- rappresenta la persona che ha più compiti “essendo madre e anche lavoratrice”.  Con la Giornata internazionale della donna si intende ricordare le conquiste socio-economiche e politiche ed al pari le violenze e le discriminazioni subite ancora oggi nel mondo dal genere femminile.

Non possiamo però, ogni 8 marzo,  lamentarci di come siamo trattate, dello stipendio più basso rispetto al collega maschio, di tutto il lavoro domestico e della cura dei figli che grava quasi interamente sulle nostre spalle, se poi continuiamo a perpetuare noi stesse gli stereotipi, i pregiudizi ed i luoghi comuni che sono causa di disuguaglianza di trattamento.  Quante volte nel linguaggio comune è utilizzata l’espressione  “sesso debole” oppure “non è un lavoro da donna” e spesso e volentieri siamo noi –donne- stesse ad utilizzarle?   Se da un lato è comprensibile che ci rifugiamo in questa retorica per consolarci un po’ dalla sofferenza che ci causa una società indifferente se non addirittura ostile, che non ci aiuta minimamente a raggiungere né a perseguire la nostra realizzazione personale, dall’altro, spesso, siamo noi le prime a non pensare alla pari.

In politica, nel lavoro, soprattutto nelle grandi aziende, non basta “essere brave”. In ambienti così maschili come le aziende  o la  politica a qualsiasi livello, le donne sono costrette ad adeguarsi al mondo maschile ed a cambiare il proprio modo di essere. Anche se ci sono molte donne che vogliono entrare in politica, per dare il loro apporto, queste trovano gli stessi partiti a sbarrare loro la strada. Non è un caso infatti che periodicamente si senta parlare di “quote rosa” in politica o nei consigli di amministrazione aziendali, come una necessità.  C’è un problema di rappresentanza, nel nostro paese. Infatti, in Italia, è molto difficile trovare donne in posizioni di rilievo  poiché  lungo il percorso la maggioranza si arrende ad una situazione di non valorizzazione delle capacità femminili. Serve una rivoluzione, di merito e culturale. Invece di mimose esigiamo più fatti. Dagli uomini e da noi stesse. Negli ultimi 20 anni l’Italia ha vissuto un notevole miglioramento in tema di pari opportunità ma la sua posizione resta inferiore alla media europea, collocandosi al 14° posto fra i paesi membri. Le donne italiane sono infatti ancora molto discriminate in casa, nella parità salariale e nell’occupazione. Lo dice l’Eige (European Institute for Gender Equality).  Il divario salariale di genere vede le donne italiane guadagnare in media il 33,4% in meno degli uomini con una percentuale di occupazione femminile molto bassa (48,1 % ; dati ISTAT 2018). Denominato “gender pay gap”, questo fenomeno deriva dal fatto che le donne lavorano meno ore retribuite, operano in settori a basso reddito o sono meno rappresentate nei livelli più alti delle aziende ed hanno , nella maggior parte dei casi, le retribuzioni pattuite  inferiori rispetto ai colleghi dell’altro genere.

E’ evidente, dunque, che c’è ancora molto da fare.                                       

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Negli ultimi 15 anni i diritti delle donne hanno ricevuto importanti tutele legislative con interventi in ambito sociale, lavorativo ed istituzionale, in materia di pari opportunità, quote rosa e repressione delle violenze sulle donne, con azioni di prevenzione, protezione, perseguimento-azione penale e politiche. Tuttavia, nonostante le donne oggi siano più istruite degli uomini (il 63% ha almeno un titolo secondario superiore contro il 58,8% degli uomini, e il 21,5% ha conseguito un titolo di studio universitario contro il 15,8% degli uomini) e siano maggiormente tutelate nella vita lavorativa anche nel loro diritto di accedere alle carriere, nella realtà quotidiana, le questioni di genere continuano a non cedere il passo all’effettiva parità. Manca qualcosa. Manca l’educazione alla parità di genere. Recentemente ha fatto scalpore, suscitando molte polemiche, un esercizio di un libro di seconda elementare dove il fine era individuare per ogni soggetto il verbo “giusto”. Mentre per il papà i verbi attinenti  erano  “lavora” e “legge” , per la madre i verbi giusti erano “stira” e “cucina”. La diatriba nata da questo esercizio, che tra l’altro ha portato anche alle scuse della casa editrice,  mi ha ricordato alcuni studi che ho avuto modo di leggere tempo addietro.  Questi  studi  hanno rilevato che le bambine di sei anni hanno meno fiducia in se stesse e nella propria intelligenza rispetto ai coetanei maschi. Si tratta di un cambio di prospettiva che si verifica nel passaggio tra l’asilo e la prima elementare. Una diversa visione e considerazione delle proprie capacità la hanno infatti le bambine di cinque anni, che hanno fiducia in se stesse tanto quanto i bambini maschi di pari età. Sebbene il pensiero comune vuole che i bambini, nei rapporti con gli altri e fra loro, non operino distinzioni di genere, questosembra valere sino ai cinque/sei anni di età.L’esposizione alle comuni convinzioni influenza probabilmente in maniera inconscia le scelte dei futuri uomini e delle future donne, appurato che, prende forma già in tenera età l’idea che esistano attività “da maschio” e “da femmina” , facendo sì che le insicurezze avvelenino i pensieri delle bambine già a sei anni. Altre ricerche inoltre hanno dimostrato come i bambini si abituino subito all’idea che le persone più dotate di talento siano di sesso maschile.

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Questi studi dimostrano , quindi, quando gli stereotipi di genere si insinuano nella mente dei bambini: è probabile che le bambine, percependosi come meno dotate, autolimitino le proprie aspirazioni e, di conseguenza, riducano le proprie possibilità di fare carriera una volta diventate adulte. Tutto ciò deve far riflettere a maggior ragione se a questi stessi bambini viene chiesto: “Cosa vuoi fare da grande?”. Mentre i bambini maschi risponderanno le professioni più disparate, nessuno dirà “fare il papà”  perché è scontato. Le bambine invece,  si divideranno nel rispondere tra chi vuol fare un lavoro e chi vuol fare “la mamma”, come se fosse già in loro l’obbligo di dover scegliere, tra “essere madre” o “fare carriera”. Scelta, “O la famiglia o il lavoro” , che molto spesso le donne, in età adulta, sono costrette a fare. Come ai più sarà noto, il numero delle donne che  lasciano il lavoro una volta diventate mamme è aumentato (e continua a farlo).

Secondo vari rapporti,  i dati sul numero dei figli e le motivazioni, che spingono le donne a lasciare il proprio lavoro, sono riconducibili alla difficoltà di conciliare  lavoro e la famiglia. Sappiamo tutte che in Italia non è possibile. Però lo sappiamo, prima di restare incinte, e solo in linea teorica. Poi quando si affronta la realtà, oltre alle difficoltà oggettive, si incontrano pregiudizi e luoghi comuni stereotipati. Si viene messe da parte perché non considerate più abili a svolgere il ruolo che si svolgeva precedentemente, come se affette da  qualche  malanno. Accade che si torni al lavoro, magari con l’intenzione di continuare in quella carriera che faticosamente si era costruita sino a quel momento e si scopre che, soprattutto in posti scarsamente tutelati, il proprio ruolo non c’è più.Che gli altri ti considerano come una persona rientrata dopo una lunga malattia, inabile a fare ciò che facevi prima. Che magari qualcuno si è piazzato al tuo posto. Non si verrà considerati più come prima e che bisogna ricominciare da zero.  A quel punto, la lotta per recuperare gli spazi perduti, riaffermare le proprie capacità, ricominciare la scalata, si scontra con le nuove incombenze familiari. Ci si trova a lottare su due fronti. Ed è lì che si decide di scegliere. La struttura sociale ha scaricato sulle donne tutto il “welfare”, caricandole di tutte le responsabilità in famiglia. Sono necessarie politiche di conciliazione robuste, fatte di sussidi consistenti, di lunghi congedi di maternità e paternità, magari obbligatori, della diffusione (anche tra gli uomini) del lavoro part time, che in alcuni paesi del Nord Europa è la regola. Grazie a tutte queste misure – ed altre ancora fare figli e riuscire a conciliare lavoro e famiglia diventa qualcosa di possibile ma, per fare ciò , è necessario prima un importante cambio culturalee dimentalità che promuova, nel tempo, la riformulazione (e non solo) anche dei modelli, creando i meccanismi necessari per poter rispettareidiritti delle donne che, oltre a un lavoro e a una carriera, hanno anche il desiderio di diventare mamme. I diritti delle donne sono parte inalienabile, integrale e indivisibile dei diritti umani universali ed in quanto tali devono essere tutelati con misure concrete e reali che, in deroga al principio della parità formale, permettano di perseguire la sostanziale parità con gli uomini. 

Qualsiasi comportamento umano distorto, infatti, può essere corretto nei suoi effetti con contenimento delle sue conseguenze attraverso azioni che tendano a favorire specifiche posizioni di svantaggio, oppure a limitarne la pericolosità di altre, ma solo l’educazione delle coscienze potrà conseguire l’effettiva eliminazione della disparità tra generi. “Pensa alla pari, pianifica con una mentalità innovativa”. E’questo il tema della giornata Internazionale della donna ONU per il 2019.

* CONSIGLIERE COMUNALE FORIO

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