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Maurizio De Giovanni in noir: «Racconto storie, i tanti perché del crimine»

Gianluca Castagna | Lacco Ameno – Oggi il noir è un genere ubiquo, un contenitore dalle molteplici suggestioni in grado, assai più del giallo tradizionale, di raccontare il disordine del mondo, accogliere autori diversissimi tra loro, comprendere – senza forzature – moduli provenienti da altri generi.
“Maurizio De Giovanni è uno dei narratori più amati dai lettori italiani. Nato a Napoli nel 1958, arriva relativamente tardi alla scrittura, vincendo nel 2005 il premio nazionale “Tiro Rapido che lo porterà al suo fortunatissimo esordi: “Il senso del dolore”, edito da Fandango e primo libro della quadrilogia dedicata al commissario Ricciardi, uomo triste, solitario y final immerso nel ventre oscuro di una città, e del suo magma criminale, durante gli anni del fascismo.
Tanti personaggi, nati dalla fantasia dello scrittore, ma anche tante solitudini o universi privati scossi da un dolore intimo e dalle contraddizioni di una società che non smette di far sentire il suo grido.

De Giovanni dice che vede noir nel suo futuro ancora per poco («scrivere non è una mia esigenza primaria; lo è leggere, semmai»); eppure, da quando ha esordito, non ha più smesso.
Il ciclo de “I bastardi di Pizzofalcone” (diventata una serie tv di successo), libri umoristici come “Le beffe della cena ovvero piccolo manuale dell’intrattenimento in piedi” e “Juve-Napoli 1-3. La presa di Torino”, testi teatrali e una collaborazione, affatto sporadica, con il quotidiano della sua città.
Intanto, nelle librerie, è arrivato il suo ultimo romanzo dedicato al Commissario Ricciardi, “Rondini d’inverno” (edito da Einaudi). Un altro caso di omicidio da risolvere ed ennesimo successo editoriale per un autore capace, come pochi, di scrutare nel profondo le anime dei suoi protagonisti.
“Il Golfo” lo ha incontrato all’Albergo della Regina Isabella a Lacco Ameno, dove lo scrittore ha accompagnato l’amico e scienziato Antonio Ereditato nella presentazione del saggio “Le particelle elementari”.

Come si è avvicinato al mondo della fisica e delle particelle elementari?
Antonio Ereditato è un uomo di una cultura multiforme e ingegno straordinario, in grado di spaziare da un argomento all’altro con grande competenza. Uno scienziato che è un vanto per l’Italia e per la nostra città, Napoli. Sono un suo amico da tempo, di fisica ne capisco poco, ma ho letto con attenzione il suo libro. “Le particelle elementari”. Sono convinto sia una materia che si sta sviluppando a grande velocità e che dovrebbe entrare nelle vita di tutti noi. Complessa ma di grande bellezza. Il saggio di Antonio contribuisce a diffondere queste tematiche presso il grande pubblico con una chiarezza e semplicità invidiabili.
La fisica si muove alla ricerca delle leggi che governano il mondo. Il romanzo nero guarda all’istinto che determina il crimine. Anche nel mondo scientifico, come in quello letterario, c’è spazio per la libertà e i sentimenti?
Lo scienziato dovrebbe essere intuitivo e libero dai pregiudizi. Così come un poliziotto, nella ricerca del bandolo della matassa criminale. Il senso dell’indagine è più o meno lo stesso.
Nei polizieschi alla fine tutto è chiaro. E nella scienza? Arriverà un tempo in cui sapremo tutto?
Non sia mai. Sarebbe la fine di un aspetto centrale dell’umanità: la curiosità. La curiosità è il contrario della paura. Paura è difendersi, nascondersi, scappare. Essere curiosi, invece, significa andare incontro alle cose, crescere, superare gli ostacoli. Certamente la curiosità è anche scomoda, difficile, pericolosa, perché può portare sull’orlo dell’abisso. La voglia di calarsi in quell’abisso e vedere quello che c’è dentro appartiene a pochissimi.
‘Rondini d’inverno’ è il suo ultimo romanzo. Ancora Napoli, gli anni 30, la canzone partenopea e il commissario Ricciardi. Soprattutto ancora più sentimento. Le geometrie raggelate del crimine hanno vita corta?
I crimini passionali sono quelli più degni di essere raccontati. Ci aiutano a capire il perché di tante cose che accadono. Penso, ad esempio, ai fatti di cronaca più recenti: l’uomo che ha ucciso il rivale in amore facendolo a pezzi e tentando di murarlo. Se lo scrivessi in un romanzo, sembrerebbe incredibile per la sua efferatezza. Invece è la realtà. Inimitabile. Certe dinamiche psicologiche si capiscono e si spiegano solo con la passione. Seguono vie sommerse che non trovano spazio nell’attività giudiziaria, dove l’importante è trovare il responsabile, né dentro la cronaca, che racconta i meri fatti, spesso molto male. E’ proprio il caso di questi giorni: sulle pagine dei giornali si trova sempre la parola “gay”, come se nell’orientamento sessuale dei protagonisti si trovasse la radice di quel crimine. E’ un pregiudizio. Come se quell’altro ragazzo che ha comprato la benzina, preso la tanica, dato appuntamento alla sua fidanzata e l’ha bruciata viva, avesse commesso qualcosa di meno grave perché eterosessuale.
Il romanzo schiva certe trappole?
Il romanzo racconta il perché. L’indagine e il racconto del perché è l’essenza stessa del romanzo nero. Ecco perché amo la scienza. La sua grande forza è superare il pregiudizio. Contrastarlo.

Lei ha un grandissimo successo popolare, quasi un peccato mortale nell’editoria. Come se la cava con gli addetti ai livori?
Racconto storie. Personaggi che ho immaginato in un certo contesto storico e sociale. Non ci sono io, dentro le mie storie. Ma ho l’ambizione, come tutti, di essere ascoltato dal maggior numero possibile di persone. Diffido da chi afferma di scrivere per se stesso. E’ come parlare da soli: una sindrome. Sono felicissimo di essere un autore popolare, alle critiche bado poco: in libreria ognuno può scegliere quel che più gli piace o interessa. Per natura, poi, sono portato ad avere una certa affettività. Resto positivo, sempre. Ritengo che i cattivi non esistano: sono egoisti, non cattivi. E l’egoismo può essere in qualche modo gestito. Come l’invidia.
Affatto sconosciuta nel mondo editoriale, ma anche in quello della ricerca scientifica.
Credo di non avere mai visto una tale concentrazione di odio personale come nella serata finale del Premio Strega. Quando qualcosa è molto importante per una pluralità di persone, fino a diventare l’essenza stessa della propria vita, è prevedibile attendersi una forte esplosione di gelosia o di invidia. Dedicare la propria vita a determinati risultati, arrivare a un passo da quel traguardo e vedersi superati da qualcun altro sul filo di lana, può indurre a sentimenti molto bassi. Non mi sorprende. Nel mondo scientifico, tuttavia, il raggiungimento di un risultato apre sempre le porte a nuove sfide: chi arriva secondo non si sente sconfitto ma approfitta delle nuove scoperte per inseguirne di nuove. E’ la stessa competitività di quel mondo a garantire la sopravvivenza degli scienziati.
Scriverebbe mai di un caso di cronaca?
Occuparsi di qualcosa che si sa già come va a finire non è il massimo per uno scrittore. In una raccolta di racconti, “Nove volte per amore”, ho affrontato nove storie di cronaca che hanno appassionato l’Italia, dal caso di Sarah Scazzi a quello di Yara Gambirasio. Mi sono concentrato, però, sul punto di vista di uno solo dei personaggi coinvolti nella vicenda. Una prospettiva diversa che offre squarci di lettura inquietanti.
A proposito di Ricciardi, l’amore non esiste per renderci felici ma per dimostrarci quanto forti possiamo essere nel dolore, nell’incomprensione e nella sofferenza. E’ d’accordo?
Siamo abituati a considerare l’amore come una condizione statica. Invece è un flusso. La storie d’amore nascono, crescono, maturano e finiscono. Come nella vita di chiunque, possono essere segnate da malattie precoci o condizioni patologiche croniche. Se fotografiamo l’amore in certo momento, raccontiamo cose diversissime sui personaggi e sui loro sentimenti.
Che ruolo hanno i fantasmi di Ricciardi in questo flusso d’amore così complicato e inespresso?
Sono una dannazione. La compassione, cioè la piena condivisione del dolore altrui, rende soli. Contrariamente a quanto ci si aspetta. E’ una condizione così rara che diventa quasi un marchio di diversità. Questo è il paradosso del commissario Ricciardi: la sua compassione lo rende solo.
Esistono ancora moduli narrativi o espressivi inediti per raccontare Napoli?
Napoli ha mille aspetti che cambiano continuamente. Basti pensare all’osservazione delle classi popolari fatta da Serao, Bernari, Rea o Compagnone. Offrono letture completamente diverse pur prendendo in esame lo stesso strato sociale. Noi narratori abbiamo la fortuna di poter vivere una città così articolata che offre continuamente spunti e punti di vista diversissimi. Tutti legittimi. La Napoli del commissario Ricciardi, negli anni Trenta, ad esempio, è una città miserabile ma dignitosa. Col tempo la miseria è diminuita, ma si è persa molta dignità. Napoli è in continua trasformazione, bisognerà trovare altri modi ancora per raccontarla.

Ha dichiarato “Meglio si scrive, più è difficile produrre un buon noir”. Il mestiere uccide il caos che regna nel noir?
La scrittura non deve dominare la storia. Quando accade, ci si distrae. Il lettore di un noir vuole seguire vicende e personaggi, non perdersi dentro le elucubrazioni espressive di chi scrive. Io sono fortunato perché, rispetto ad altri colleghi molto più bravi di me, sono uno scrittore di livello non alto. Questo mi aiuta a raccontare meglio le storie che ho in mente.
Simenon o Chandler?
Simenon è così straordinario…dentro Simenon c’è anche l’asprezza di Chandler.
Elmore Leonard, Jim Thompson o Ed McBain?
Sempre McBain. Racconta la strada, gli eroi normali che hanno paura come tutti. Un’intuizione straordinaria.
Quando non scrive, o non legge, cosa fa?
Cerco di dormire, il mio hobby preferito. Sono molto contento quando riesco a farlo.
Se si andasse a votare domani saprebbe chi scegliere?
Sì, probabilmente sì.
Il film che l’ha spaventata di più.
“Un borghese piccolo piccolo” di Mario Monicelli. La ferocia normale, quella piccola identità criminale, dentro un vecchietto così determinato a vendicare l’assassinio del figlio, è una delle cose più terribili che siano mai state raccontate. Non solo al cinema.
Viene spesso a Ischia.
Come tutti i napoletani, la conosco bene e ne sono innamoratissimo. Non soltanto l’isola balneare dei mesi estivi, ma Ischia durante d’inverno: luogo di una bellezza assoluta, di una dolcezza e di una profondità particolari. L’amo molto, non posso farne a meno.
La sua estate più bella.
Quella del 1987, con il Napoli campione d’Italia.
Un libro da brividi da consigliare ai lettori de Il Golfo.
“Trilogia della città di K” di Ágota Kristóf. Un libro terribile, atroce e straordinario. Ad ogni pagina non sai mai cosa accadrà in quella successiva. Se non vengono i brividi leggendo questo libro, vuol dire che fa davvero troppo caldo.

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