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“Moro, il caso non è chiuso”, a Casamicciola il libro-inchiesta di Giuseppe Fioroni

Gianluca Castagna | Casamicciola TermeSono passati 40 anni dal sequestro e dalla uccisione di Aldo Moro, una gigantesca e tragica vicenda di intrecci italiani e internazionali, drammaticamente emblematica di tutti i fragili equilibri su cui si è retta la nostra Repubblica nel secondo dopoguerra. Una storia talmente complessa, per certi versi misteriosa (nonostante tutti, dai cronisti ai cineasti, vi si siano scaraventati addosso), che ancora oggi, a distanza di quattro decenni, presenta una verità (giudiziaria) incompleta e un castello di reticenze inaccettabili.
Dove è stato ammazzato Aldo Moro? Come è stato ucciso? Chi lo ha ucciso? Per l’«Operazione Fritz», il nome in codice dell’«operazione Moro», ancora interrogativi, omissioni, connivenze, resistenze, silenzi più o meno colpevoli. Tanto c’è il memoriale Morucci-Faranda, due dei brigatisti rossi coinvolti nel sequestro, a raccontare la versione politica “definitiva” del caso. Probabilmente un dossier scritto a più mani, utile a una trattativa tra brigatisti e istituzioni – i servizi segreti, nello specifico – per “tombare” la ricerca della verità, consentendo però la fine della lotta armata e la riduzione del carcere per i brigatisti.

E’ questa la tesi di Giuseppe Fioroni e Maria Antonietta Calabrò contenuta in “Moro – Il caso non è chiuso – La verità non detta” (Lindau edizioni), scrigno di fatti e documenti che, alla luce della relazione finale della Commissione di inchiesta del dicembre 2017 (presieduta dallo stesso Fioroni), fa maggiore chiarezza su ciò che è stato (e ha rappresentato, anche per il presente del Paese) il rapimento e l’assassinio dello statista democristiano. Un delitto mai definitivamente risolto, vero e proprio cold case. Un pezzo di memoria storica che, oltre ai nuovi risultati dell’investigazione, si propone un’ambizione più alta: fare luce su ciò che è iniziato a Yalta nel febbraio 1945 e forse non è ancora finito.
Il volume è stato presentato venerdì sera in Piazza Marina a Casamicciola, nell’ambito della rassegna “Libri sotto le stelle – Incontri d’autore in piazza”, organizzata da UniPegaso, A.N.S.I e la famiglia Mattera con la collaborazione del Comune di Casamicciola. Alla presentazione, moderata dalla giornalista Annamaria Chiariello e seguita con estremo interesse da un folto pubblico di residenti e turisti, hanno partecipato Giuseppe Fioroni, ex deputato PD, Presidente della Commissione parlamentare d’Inchiesta sul caso Moro e co-autore del libro; il sindaco di Casamicciola Giovan Battista Castagna; Danilo Iervolino, Presidente Università Telematica Pegaso; Raffaele Bonanni, sindacalista Cisl e Presidente Nazionale ANSI.

Tutto quello che la gente sa sul cosiddetto caso Moro, sulla strage efferata della sua scorta in via Fani, sulla lunga prigionia e la sua sconvolgente morte, si basa in gran parte su una ricostruzione dei fatti frutto di un compromesso volto a formulare una «verità accettabile» sia per gli apparati dello Stato italiano, sia per gli stessi brigatisti.
Il volume, ovvio, non può negare che le Brigate rosse abbiano condotto il sequestro, né afferma che siano state eterodirette. Evidenzia però tutte le incongruenze di una versione “ufficiale” che riduce il sequestro Moro all’operazione di una decina di persone che operarono pressoché in solitudine. Non è così. Durante i giorni del sequestro, i brigatisti, specialmente la colonna romana, appaiono come una delle cellule di un più vasto partito armato e mantengono rapporti, talvolta dialettici, talvolta di vera e propria collaborazione, con altre formazioni, anche internazionali.
Quattro anni di lavoro, migliaia di documenti desecretati degli archivi dei servizi segreti italiani, centinaia di nuove testimonianze, nuove prove della Polizia scientifica e dei RIS dei Carabinieri colmano un clamoroso vuoto di investigazione e rivelano molti nuovi, sorprendenti elementi.
La ricostruzione puntuale della scena del crimine di via Fani; il numero e l’identità dei killer presenti la mattina del 16 marzo 1978; gli allarmi lanciati (e non ascoltati) su un “grosso” evento terroristico che avrebbe coinvolto l’Italia e la consapevolezza che ne ebbero il Governo italiano e lo stesso Moro; i rapporti tra brigatisti e criminalità organizzata, in particolare la ‘ndrangheta; i luoghi dove venne tenuto prigioniero Moro durante i 55 giorni del sequestro; il rapporto tra la vicenda Moro e la politica mediorientale dell’Italia; i fatti della drammatica giornata del 18 aprile 1978, quando fu scoperto il covo di via Gradoli e comparve il falso comunicato del lago della Duchessa; gli ultimi giorni del sequestro, con l’improvviso fallimento di una trattativa che sembrava a buon punto e il misterioso trasporto di Moro al centro di Roma. Ma anche i traffici di armi che in quel periodo attraversavano l’Italia, forse con la consapevolezza degli apparati stessi dello Stato.

Tra le molte novità, la ricostruzione “in situ” (mai fatta prima da nessun giudice!) delle presunte modalità di uccisione di Moro che dimostra la impossibilità pratica dello svolgimento dei fatti come narrati da Morucci; il Presidente della DC guardò negli occhi chi gli sparava. Non morì sul colpo, dunque, ma in modo atroce, dopo una lenta agonia. Ancora: il suo carceriere trovò rifugio da latitante in una palazzina dello IOR, la banca vaticana; il Bar “Olivetti”, all’angolo tra via Fani e via Stresa, usato probabilmente come base per l’azione brigatista, la presenza di due terroristi della RAF, la Rote Armee Fraktion (le BR tedesche) sul luogo del rapimento. E poi gli ordini militari e massonici di destra segreta e il ruolo, anche quello mai definitivamente accertato, delle organizzazioni di intelligence e terrorismo straniere. Stasi, Cia e Olp in primis.
Dietrologia o un rebus con esiti incredibili ma probabilissimi visto il ruolo di Moro (e dell’Italia) nello scacchiere geopolitico del tempo? Il giornalista Mino Pecorelli, direttore del settimanale Osservatore Politico, scrive il 2 maggio 1978 : “E’ Yalta che ha deciso Via Fani, l’agguato porta il segno di un lucido superpotere, l’obiettivo primario è quello di allontanare il Pci dall’area del potere nel momento in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del paese. Non si vuole che accada. Ancora una volta la logica di Yalta è passata sulle teste delle potenze minori”. La situazione negli anni Settanta era in evoluzione, Moro lo aveva intuito e aveva cercato di cambiare gli equilibri di Yalta con dieci anni di anticipo: è morto (anche) per questo.

«Da pochi elementi» racconta l’autore Fioroni dal palco di Piazza Marina, «aveva ricavato una visione profetica: la stagione della prima repubblica, della Costituente, dei grandi partiti popolari di massa era arrivata al capolinea. Nelle sue bellissime lettere, Moro si dice preoccupato quando vede la flessione degli italiani al voto. Era convinto che un Paese ha un Parlamento e un Governo autorevoli solo se alle elezioni vanno metà più uno degli aventi diritto al voto. Una disaffezione della politica che non aveva assunto le proporzioni gigantesche, ma già richiedeva una rigenerazione profonda. Moro capisca, agli inizi degli anni di piombo e della lotta armata, che la democrazia italiana non dava più risposte: da una parte il suo partito, la Democrazia Cristiana, abituato a vincere; e se vinci sempre, non esiste più tensione morale o progettualità, la politica diventa mera gestione dell’esistente e del potere, con tutto quello che avrebbe comportato nel tempo in termini di decadenza; dall’altra parte, c’era il Partito comunista; prendeva milioni di voti ma gli elettori erano sempre più frustrati perché tutto quello che dicevano non si concretizzava mai in un dato di fatto. Moro non aveva pensato al compromesso storico come lo immaginiamo oggi: Moro aveva pensato a un periodo di collaborazione che metteva insieme gli elettorati della DC e del PCI, l’80% del Paese, per consentire agli italiani di ritrovare agli italiani una bussola di valori condivisi. Quella bussola non c’era più e senza riferimenti comuni non si andava da nessuna parte. Mono comprende che nel 78 quella bussola dettata dalla costituzione non c’era più. La collaborazione tra DC e PCI avrebbe allargato la base del consenso per valori come la libertà, l’uguaglianza, la giustizia sociale, la politica estera. Chi uccide Moro lo fa per questo pensiero profondamente riformatore. Un pensiero forte e lungo che voleva cambiare l’Italia e che metteva la parola fine alla speranza della rivoluzione e del “Sol dell’Avvenire”. Chi lo rapisce e lo ammazza, lo fa per questo.
«Poi certamente» aggiunge Fioroni, «Aldo Moro, come tutti quelli che avevano una forte capacità di elaborazione ideale, era sgradito a destra come a sinistra, alla Nato come al patto di Varsavia. Avvertì: l’Onu non funzionerà come governo di indirizzo dei popoli se non saremo in grado di impedire che ci siano ancora Paesi destinati a scrivere la storia e quelli destinati a subirla. Ogni Stato deve poter determinare la propria storia. La frase “L’Europa è il Mediterraneo” la inventa lui, e quanto si arrabbiarono gli Usa, quella volta. Fu profetico: se non generiamo nel nostro giardino di casa (il nord Africa) la pace, arriverà il momento in cui loro verranno da noi. Lo diceva nel 1978».

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Anche Iervolino e Bonanni hanno ricordato la figura e il pensiero di Moro.
«Faceva parte dei politici inclusi nel bios politikos, segnato dall’obbligo morale di prestare il proprio ingegno al servizio del sociale» afferma il Presidente della Università Telematica Pegaso. «Era un riformista, l’unico politico italiano a parlare di rivoluzione in ambito culturale, l’unico a realizzare una riforma compiuta del settore universitario, legando l’istruzione alla modernità e all’economia che cambia. Una perfetta sintesi tra destra e sinistra; un liberale autentico, che non è di destra né di sinistra, ma vuole sintetizzare la mediazione e ascolta per cercare di capire i veri problemi. Un uomo politico a tutto tondo: Segretario del partito, Presidente del Partito, Ministro e Capo di Governo. Impegnato nella politica del dopoguerra con l’Italia necessariamente all’interno dell’Europa e un Europa che guarda l’Italia e le riconosce un ruolo centrale, importantissimo, nella macro-area del Mediterraneo. Dai suoi insegnamenti, però, abbiamo imparato davvero troppo poco. Questo libro aiuta a riflettere, ci riporta a un’attualità straordinaria, a verità amarissime che non ci sono state svelate».
Bonanni ricorda che per Aldo Moro «la stagione dei diritti e delle libertà risulterà effimera se non nasce un nuovo senso del dovere. La democrazia dell’alternanza, quel pluralismo senza il quale l’arena politica diventa solo scontro permanente senza alcuna direzione morale e politica per far fronte al governo della comunità. E’ ciò per cui si è battuto. Da anticomunista preferiva l’accordo con il PCI pur di non indebolire il paese e non soggiacere ai poteri forti, dentro e fuori il Paese. Era stato Costituente a soli 28 anni, impegnato da subito costruire l’equilibrio tra poteri. Più garanzie ai partiti e alle associazioni dovevano godere di più garanzie pur di non lasciarsi travolgere dallo stra-potere dello Stato (com’era avvenuto col fascismo) o del mercato. Come oggi, quando ci ritroviamo con uno Stato debolissimo, una politica debolissima e la finanza con un potere straordinario, mai visto prima. Moro ha assistito alla crescita dei diritti sociali, soprattutto quelli legati al lavoro dopo la stagione del ’68. Ma ha intravisto anche l’esaltazione dei diritti individuali scollegati dalla solidarietà sociale».

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Al termine dell’incontro Fioroni si è intrattenuto con il pubblico, ancora avido di rivelazioni su una pagina tra le più tragiche della storia repubblicana. Oltre la sola «verità» dicibile, oggi del tutto insoddisfacente.

Il sindaco G.B.Castagna
«Difensore dei diritti umani
e della collaborazione tra i popoli»
«In questi anni l’Italia si trova di fronte un dibattito estremamente acceso riguardo alla problematica dell’immigrazione. C’è chi è dalla parte di Salvini e chi è contro. Chi ritiene che le persone a bordo della nave italiana “Diciotti” non dovessero scendere a terra e chi è favorevole all’accoglienza. In questi giorni così concitati ho fatto una ricerca su come si sarebbe espresso un politico come Aldo Moro. Ho trovato un suo articolo, pubblicato su “Il Giorno” nel 1976, in cui si legge: “In una fase avanzata del processo di unificazione del mondo, qualche breccia è stata aperta in questo modo. Siamo solo ai primi passi di una evoluzione destinata a riconoscere che la condizione umana dei cittadini del mondo non può essere disciplinata in modo esclusivo secondi criteri interpretativi e interessi dei singoli Stati. Almeno per quanto riguarda i fondamentali diritti umani, gli Stati non sono sovrani, ed hanno un superiore da riconoscere anche nella più gelosa sfera della propria esistenza intera. Bisogna capire e prepararsi.”. E ancora: “Non possiamo dunque rinunziare agli strumenti di sicurezza, i quali, tra l’altro, ci offrono occasione di positiva influenza politica. Ma neppure intendiamo lasciar cadere le prospettive di mutare, gradualmente, il modo di essere del mondo, passando dalla garanzia della forza alla garanzia della fiducia, dalla tensione alla distensione, al negoziato, alla cooperazione.”. Moro aveva già intuito quali potevano essere i problemi dell’Europa e della globalizzazione. Eppure oggi noi non facciamo tesoro di questi insegnamenti. Ci allontaniamo dalla soluzione anziché avvicinarci. Un pensiero mai superato, ancora attualissimo.»

 

 

 

 

 

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