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Nella chiesetta del Rotaro resistono il rito della via Crucis e i venerdì di Quaresima

Nella zona del Cretaio, resiste da poco meno di trecento anni, con varie ricostruzioni e restauri,  una chiesetta dedicata al SS Crocifisso. Fu fatta costruire dal nobile isolano Francesco Menga nel 1731, fu distrutta dal terremoto del 1883 e in seguito, ricostruita. Presenta una semplice struttura architettonica con un solo altare di marmi policromi ed una sola navata, dominata da un gran crocifisso ligneo di pregevole fattura, datato 1700. Lo scomparso Don Attilio Buono,  ha raccontato, che la chiesetta fu costruita perché un giorno era partito da Casamicciola un asino recante in groppa un Crocifisso (l’attuale). L’asino si fermò in un grande frutteto nel quale si buttò a terra e si rifiutò di proseguire. Così sul posto gli abitanti decisero di costruire una cappella che racchiudesse il Crocifisso. Al suo interno vi sono delle lapidi che ricordano le tappe storiche. Il Comune di Barano l’ha espropriata ai proprietari, restaurata e restituita alla fede di quanti vogliono recarsi (come da tradizione) tutti i venerdì di Quaresima per i riti sacri. Nel pomeriggio dell’ultimo venerdì della Quaresima si suole celebrare una toccante funzione, con gran partecipazione di popolo: è una Via Crucis che parte dalla chiesetta e si snoda per la via Cretaio fino alla parrocchia di Maria SS. Madre a Fiaiano. Il mito del Cretaio anticipa la descrizione del D’Ascia e va oltre la data della pubblicazione del suo libro “Storia dell’Isola d’Ischia” (1864), monumentale lavoro editoriale da cui chiunque ha attinto. Esso viaggia attraverso gli anni che sono seguiti fino ai giorni d’oggi, dove in quella piccola e mistica chiesetta, da sempre si sono celebrati gli attesi venerdì della Santa Via Crucis che precedono la Pasqua. Il mitico Cretaio, meta di allegre comitive di tutte le epoche, protagoniste di memorabili scampagnate per rispettare una tradizione che non esula dal senso religioso, conserva  il suo ruolo storico soprattutto nei ricordi di chi ha goduto del suo fascino, specie nei tempi in cui la sua natura era intatta e il profumo della sua vegetazione era avvertito da lontano. Giuseppe D’Ascia provò l’esperienza del Cretaio in groppa ad un asino Lasciando ai posteri questa sua testimonianza: “Era il 30 aprile dell’anno di grazia  1859, verso le prime ore del mattino, io sollecito montavo un piccolo asino a pelo nero, tratto a nolo, e m’inoltravo per la nuova strada, se pur con maggiore proprietà non si voglia chiamare nuova traccia, del Monte Rotaro, anticamente chiamato il Cretaio, cioè, luogo cretoso; quale traccia in varie tese s’interna e si protende, per lungo e per largo, sulla china che guarda il settentrione per addolcire il sentiero. Salendo per quelle tese e giravolte, fissai lo sguardo alla parte che guarda il Mezzogiorno, in mezzo ad una florida vegetazione, alternata da ben disposti ed accavallati vigneti, piantati in fila su quelle capricciosette colline, ai cui lembi sorgevano, dei fitti selveti che, scendendo lunghesso a precipizio, inerpicavansi fra le curve dei ciglioni della Valle di Lerce, coronando le alture del Rotaro ed adombrando la base di esso: offrivano così allo stanco agricoltore riposo e sollievo nelle ore canicolari.” A leggere le parole del D’Ascia scritte 153 anni fa che descrivono un Monte Rotaro, ossia il Cretaio “in mezzo ad una florida vegetazione” fa venire la pelle d’oca se si pensa come sia diventato il “Rotaro” oggi. La vecchia chiesetta, del resto anche restaurata, sfida il tempo e la deturpazione del luogo. Domina la pseudo “piazzetta” circondata da una miriade di case abusive costruite senza criterio tecnico  ed ambientale fra quegli alberi in boschetti che un tempo erano rifugio festoso e spensierato di allegre comitive  di adulti, ragazzi e ragazze e bambini  per la tradizionale gita al Rotaro. Tempi belli e lontani che possono essere rivissuti solo riesumando qualche vecchia fotografia ingiallita che ti riporta ad un passato che non potrà tornare più.

Michele Lubrano

 

 

 

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