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Pericle il Nero – La recensione

Gianluca Castagna | Nitido nel suo dolore, glaciale nella sua disperazione. “Pericle il nero”, diretto da Stefano Mordini dopo lunga e travagliata gestazione, è già sotto esame nelle sale italiane per valutare la tenuta cinematografica delle peripezie di un malavitoso su nuovi fondali urbani, popolati da branchi sanguinari e resi disumani dalla somma legge della strada a mano armata. Ouì, anche lì, nel nord Europa civilissimo e asettico, così lontano dal Vesuvio ribollente alla cui ombra era ambientata buona parte del solido noir di Giuseppe Ferrandino.

pericle il neroRiccardo Scamarcio è uno scagnozzo bravo a fare il culo alla gente per conto del suo boss, un re delle pizzerie italiane a Liegi, in Belgio.
Dal porno alla droga, lo sguardo tormentato di Pericle sembra estraneo alla sua stessa vita. Uno zombi sans toit ni loi che racimola soldi con trascurata indifferenza, pensa alla tomba di sua madre, giù a Napoli, obbedisce agli ordini di Don Luigi senza fare troppe domande.
C’è una testimone, Signorinella, che non andrebbe toccata. Quando succede, perché gli frigge il cervello, parte la caccia all’uomo. Così, su un furgone, il killer arriva a Calais, senza sapere bene cosa fare. Senza soldi e senza appoggi. Finché conosce una donna, Anastasia, commessa in una boulangerie, che prima lo respinge e poi lo accoglie nella sua vita con prole, in un condominio che si affaccia su una spiaggia deserta sul lungomare plumbeo di Calais.

pericle-il-nero-clipNel trasloco sotto i cieli del Nord (Mordini e Scamarcio troppo impauriti dalla voracità cannibale di Napoli), il Pericle cinematografico smorza l’identità profonda che l’appartenenza partenopea gli conferiva, perdendo quella densità assoluta che rende febbrili le pagine (e i personaggi) di Ferrandino.
Non v’è traccia di polar, né di Simenon, né di residui del noir più metallico integrati in un tessuto narrativo convincente. Alla fragilità drammaturgica si tenta di porre rimedio con l’influenza dei Dardenne (coproduttori del film insieme alla Buena Onda di Golino/Scamarcio), il peso del loro sguardo (neo)realistico sociale, l’ambiguità dell’innocenza, una realtà vagabonda e abietta filmata quasi di nascosto.
L’effetto di incertezza e disarmante sincerità ben si adatta all’intimità cruda, goffa, dolente e rabbiosa di un uomo in fuga soprattutto da se stesso e da quel che è stato. L’occasione di rompere il circolo vizioso (dentro e fuori di sé) si scontra però con un’esistenza bruciata prima ancora di essere vissuta. L’angelo caduto in cerca di redenzione (una famiglia non criminale) becca un itinerario d’autore senza pathos (lacrimazione sulla spiaggia a parte), ma con una certa indipendenza dai soliti paradigmi del genere che lo rendono oggetto da salvare malgrado certe inverosimiglianze della seconda parte, una fastidiosa voce fuoricampo, le musiche (svedesi) piuttosto invadenti, lo spiegone che fiacca la suspance.

Pericle Scalzone resta il malavitoso che cala giù i calzoni e “lascia andare il pesce”, ma con la mente continua a ritornare sulle sue stimmate (“Tu non dovevi proprio nascere”), sull’eredità di un passato e l’impossibilità di tradurlo in qualcos’altro. Così si decide il destino dell’uomo. Ieri come oggi.

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