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Lo spettacolo continua

In un mio pezzo di qualche settimana fa dal titolo “ ’e faccio o show” mettevo in risalto, con punte  di marcata ironia, come l’atteggiamento da palcoscenico accompagna nella quotidianità l’agire dell’uomo. Mi forniscono lo spunto per ritornare sull’argomento talune considerazioni di mia mamma, ormai nota al lettore di questo foglio per i suoi magnifici 90 anni, assidua lettrice di “Giallo” il settimanale che, raccontando i casi giudiziari del momento, offre al lettore i propri indirizzi di indagine. La prima pagina di questa settimana riportava una grande foto della bella signora Isabella Noventa e del suo presunto assassino, accompagnate dalla seguente didascalia “La bugia di Freddy: è morta facendo sesso estremo”. La televisione non è stata da meno sul punto. Ha intervistato, tra gli altri, anche l’ex marito che oltre a mostrarsi profondamente addolorato per la morte della sua ex moglie, ha voluto stigmatizzare le bugie dell’incolpato, ponendo in risalto l’indisponibilità della signora a giochi erotici. Risparmio al lettore il commento, borbottato, di mia mamma nel leggere la notizia, anche se lo stesso, sagace e pungente, poiché proveniente da una “femminista” di prima ora, sarebbe istruttivo per tante femministe di oggi, in quanto desidero soffermarmi sul come le tragedie di qualcuno, diventano spettacolo per altri. Succede un omicidio e prima dei carabinieri arrivano le telecamere. La morte di qualcuno o la tragedia di chi poi è incolpato (spesso anche a torto), diventa argomento di talk show con magistrati, criminologi, psicologi o psichiatri, spesso suggerendo anche vie di fughe processuali, a discettare del crimine. Un esercito di persone che, evidentemente, avendo poco da fare, viene pagato per stare in televisione ore ed ore, a dare opinioni sul fatto previo accesso, non so come, alle carte processuali. Spesso mi pongo nelle vesti dell’imputato, e avendo appreso a scuola che esso è da considerare innocente fino alla sentenza definitiva di colpevolezza, mi chiedo del perché deve essere esposto al pubblico disprezzo e ludibrio prima di sentenza definitiva. Il giurista di un tempo  “Leone” evidenziava che spesso “lo strepitus fori” danneggia più del fatto. Oggi lo “strepitus” non è più ristretto al foro ma è generale. Addirittura c’è una trasmissione che parafrasando “i gradi di  giudizio” che sono tre, si è arrogata l’appellativo di “quarto grado”.  Della famiglia Bossetti tutti hanno dovuto sapere se il muratore andasse ad abbronzarsi, se avesse gli occhi chiari o scuri, se la mamma, in gioventù, avesse avuto qualche passione ingravidante, se la moglie da sola o in compagnia, guardasse qualche filmetto al pc o se avesse qualche amicizia maschile. Che c’entra tutto questo con la responsabilità dell’omicidio? Per certe pruriginosità private, Bossetti è colpevole di aver ucciso la ragazza? E’ giusto, secondo il lettore continuare a dire che si deve informare perchè si è nell’esercizio del diritto di cronaca? A mio parere no. E’ cronaca la notizia del fatto, quella dell’individuazione del responsabile e della decisione finale che condanna o assolve l’incolpato. Nell’intermezzo, la televisione o i giornali, ci devono informare di altro, offrendoci caso mai più varietà, più sport o cultura e non rovistare quotidianamente nelle pieghe delle mutande degli incolpati d’un fatto criminoso. Si lascino lavorare gli inquirenti senza tampinarli quotidianamente per sapere: dell’esito dell’esame del dna, del telefonino, del computer, delle condizioni del fondale di un fiume che si scandaglia alla ricerca di un corpo o se quella donna che non si trova è andata o meno in canonica. Forse avremmo meno errori giudiziari, meno responsabili in circolazione, meno morti aggiunti e un canone televisivo più basso. Non dovendo pagare tanti opinionisti che si impegnerebbero maggiormente nel loro lavoro con parcelle meno care rispetto a quelle, pretenziose, dopo aver partecipato ai talk show. Avremmo, forse, anche avvocati miglior custodi del segreto professionale e non sempre pronti a duettare in televisione o ad essere ripresi sui luoghi del crimine (pur se al freddo o sotto la pioggia). Uno in particolare mi provocava apprensione. Era di un paesino del tarantino “Avetrana” che, prima dell’omicidio della ragazzina Sara, nemmeno sapevamo esistesse. Era stato nominato difensore di ufficio dell’incolpato (il lettore deve sapere che quando le forze di polizia fermano qualcuno, accusato di un reato, non lo possono interrogare senza la presenza di un avvocato che solitamente gli stessi chiamano, tra quelli della zona, disponibili a correre in caserma per fare la cortesia). Da un momento all’altro il nostro, era diventato una star che, pur incespicando nei tecnicismi giuridici che lo spettacolo determina, partecipava ai talk show ed alle interviste dai luoghi del crimine sempre con impeccabile arredo personale o mentre sfrecciava su un fiammante suv di una nota casa automobilistica. La cosa che però m’indisponeva, nel suo modo di esporre, era che quasi mai chiamava per nome l’incolpato. Lo aggettivava come “il mio assistito”. Il pronome  “mio” prendeva il sopravvento anche sul fatto. Ad un certo punto l’incolpato (di un processo in cui solo la Cassazione potrà rimettere ordine) capì l’antifona e preferì rubargli la scena revocandogli la nomina. La televisione, però, non ci ha più informato di cosa si occupa oggi quel mito creato dalla scena. Con ciò non desidero biasimare nessuno se non un sistema di informazione che andrebbe rivisto.

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