CULTURA & SOCIETA'

Affondarono con l’incrociatore i due marinai ischitani

Il Direttore Ambrogio Mattera, dopo aver seguito la puntata televisiva dedicata all’affondamento dell’Incrociatore “Giovanni delle Bande Nere” nel 1942, ha ricordato la presenza a bordo dell’unità navale dello zio Ambrogio Iacono e del santangiolese Felicino Mattera

Non senza commozione il Direttore Ambrogio Mattera, ha seguito la puntata televisiva dedicata alla Seconda Guerra mondiale e segnatamente alla battaglia navale del basso Tirreno fra unità italiane e inglesi del 21 marzo 1942.

In quel combattimento era stato impiegato l’incrociatore leggero “Giovanni delle Bande Nere”, un nome “familiare” per Ambrogio Mattera, perché ha sempre rievocato la figura dello zio, il marò ventenne Ambrogio Iacono, fratello della madre Caterina del dott. Mattera e figlio di Fabio Iacono ex Sindaco del Comune di Serrara Fontana.  imbarcato sulla nave da guerra insieme al santangiolese Felicino Mattera.

Ebbene, proprio in questi giorni, dopo 77 anni dal suo affondamento,  il relitto dell’incrociatore è stato localizzato dal cacciamine “Vieste” della Marina Militare ad una profondità compresa fra i 1460 e i 1730 metri al largo  dell’isola di Stromboli.

Un ritrovamento fortuito, ma anche di alta tecnologia, perché conseguente ad una ricerca subacquea effettuata attraverso l’impiego di due veicoli  predisposti per la perlustrazione di fondali profondi.

Il primo, a conduzione autonoma, appartenente alla classe “Autonomous Underwater Vehicle” – AUV Hugin 1000, della Ditta Kongsberg; il secondo, a conduzione filoguidata,  “Multipluto 03” della Ditta Gay Marine, hanno circoscritto l’area di ricerca in base alle presunte coordinate dell’affondamento della nave e attraverso segnali acustici e filmati hanno ripreso le prime immagini dell’incrociatore spezzato in tre tronconi.

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Il “Giovanni delle Bande Nere” aveva preso parte alla seconda battaglia della Sirte ed era riuscito a colpire l’incrociatore britannico “Cleopatra”. Per le avverse condizioni del mare, la nave italiana era stata costretta a rientrare nella base di Messina per tamponare alcuni danni subiti  nel corso dei combattimenti. L’incrociatore leggero era stato impostato nei cantieri navali di Castellammare di Stabia nel 1928 e varato nel 1930. Aveva una lunghezza di 169 metri, un dislocamento di 6.950 tonnellate e un apparato motore di 95.000 cavalli che consentivano una velocità massima di 36 nodi. Era armato da 14 cannoni per la difesa antiaerea e anti-silurante e da 10 mitragliere. Disponeva infine di due piccoli ricognitori aerei Imam Ro 43 che venivano lanciati grazie ad una speciale catapulta installata sulla pista di prua.

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Le notizie sono contenute nei vari Bollettini di Guerra della Regia Marina, ma un testimone d’eccezione, il fuochista Guido Fabbri, che salvò la pelle nell’inferno di fiamme e di fuoco sprigionatesi dalla nave colpita a morte un mese dopo, mentre navigava verso La Spezia,  ha raccontato ai figli Mirella, Bruno e Aurelio,  i particolari dell’affondamento e le crudeli modalità legate all’annegamento dei suoi compagni di sventura.

Una ricca e controversa anedottica è fiorita intorno agli episodi più importanti delle battaglie navali nel Mediterraneo, contrassegnate dall’impietoso prevalere della flotta inglese su quella italiana, peraltro molto potente e provvista di corazzate, cacciatorpediniere, incrociatori, sommergibili e gli insidiosi “maiali” che colpivano le navi avversarie ben protette nelle basi navali,  sotto la linea di galleggiamento. L’introduzione del radar e la fitta rete spionistica alleata ebbero la meglio sul coraggio dei nostri marinai e la munitissima flotta reale.

L’episodio dell’affondamento del “Giovanni delle Bande Nere” s’inquadra perfettamente in quella strategia organizzativa britannica che consentiva di localizzare a distanza le navi italiane in navigazione notturna, anche ben protette da convogli poderosi e ottimamente armati.

Dopo la sosta nella base di Messina, il “Giovanni delle Bande Nere” prese il largo nel corso della notte del primo aprile 1942, diretto all’Arsenale di La Spezia per effettuare alcune riparazioni. Localizzato dagli Inglesi a 15 miglia a sud di Stromboli, fu colpito da due siluri lanciati dal sommergibile inglese “Urge”. I radar non perdonavano. L’incrociatore affondò in poco tempo, trascinato nel gorgo mortale dal peso enorme delle paratie di acciaio sfondate in più punti dello scafo.

Il fuochista Fabbri, aggrappato ad una zattera, riuscì a raggiunge la nave- appoggio, torpediniera “Libra”, con pochi altri. Gli Ischitani Ambrogio e Felicino sparirono nelle profondità marine “donando alla Patria”  la loro giovinezza e i sogni fallaci di un’Italia che si avviava verso il suo tragico destino.

Nella piazza di Serrara Fontana, un monumento marmoreo scolpito da Amedeo Garufi, eretto dall’amministrazione comunale, capeggiata dal sindaco Pietro Carlo Mattera,  reca incisi i nomi dei Caduti dell’ultima guerra: un pietoso ricordo di una parentesi oscura della nostra storia, che va letta nella sua giusta dimensione, senza enfasi, né retorica,  né celebrativa di inesistenti eroismi nazionali. Restano soltanto quelle giovani vite spezzate, come Ambrogio e Felicino, a testimonianza di un  passato che si fa fatica ad accettare per la complessità dei giudizi e per la controversa lettura “politica” degli avvenimenti.

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