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Aggressione al poliziotto, D’Abundo assolto in appello

Il fatto non costituisce reato: la Corte ha accolto le argomentazioni dell’avvocato Gianluca Maria Migliaccio ribaltando il verdetto di primo grado

Ci sono voluti oltre sette anni, ma in appello è arrivata l’assoluzione per Antonello D’Abundo. L’imprenditore ischitano era rimasto coinvolto in un episodio verificatosi nel dicembre dell’ormai lontano 2014, per il quale in primo grado era stato condannato per il reato di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni fisiche. Tuttavia in appello la Corte ha accolto le argomentazioni portate dall’avvocato Gianluca Maria Migliaccio ribaltando il verdetto, e mandando assolto D’Abundo “perché il fatto non costituisce reato” in relazione alla contestata resistenza, mentre per l’accusa di lesioni è stato dichiarato il difetto di querela, previa esclusione dell’aggravante dell’aver agito contro un pubblico ufficiale. Bisognerà attendere novanta giorni per conoscere i motivi della decisione, ma è indubbio che l’impianto accusatorio sia stato smontato dalle prospettazioni difensive elaborate dall’avvocato Migliaccio, il quale all’esito del giudizio d’appello ha dichiarato: «Una vicenda che meritava l’archiviazione ha, invece, richiesto addirittura il secondo grado di giudizio. Meglio tardi che mai..». Del resto, anche il Procuratore Generale aveva chiesto la riforma della sentenza di condanna emessa dall’allora giudice monocratico della sezione distaccata d’Ischia, Capuano.

Per i fatti di quell’11 dicembre 2014, D’Abundo fu rinviato a giudizio appunto per due capi d’accusa: il primo per il reato previsto dall’articolo 337, in quanto “usava violenza e minaccia nei confronti dell’assistente capo della Polizia di Stato Maurizio Bianculli per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio. Nella fattispecie non ottemperava all’invito, che l’Assistente gli aveva rivolto, di esibire i documenti di circolazione ed assicurativi dell’autovettura Mercedes cl.B tg EN776SB su cui si era posto alla guida e innestata la marcia tentava dapprima di investirlo e poi, al tentativo dell’Assistente di Polizia di fermarlo, reagiva bloccandogli la mano destra nel finestrino della portiera lato guida e trascinandolo per alcune centinaia di metri”. Il secondo capo d’imputazione era relativo al reato previsto “dall’articolo 81 cpv, 582, 585 in relazione all’articolo 576 c.5 bis del codice penale, perché al fine di commettere il reato di resistenza a pubblico ufficiale e in esecuzione del medesimo disegno criminoso, provocava a Maurizio Bianculli lesioni personali giudicate guaribili in sette giorni”.

L’assoluzione è arrivata in relazione alla contestata resistenza a pubblico ufficiale, mentre per l’accusa di lesioni è stato dichiarato il difetto di querela, previa esclusione dell’aggravante dell’aver agito contro un pubblico ufficiale

I fatti ebbero un prologo poche ore prima, quando l’auto di Bianculli secondo quest’ultimo fu urtata dalla vettura condotta da D’Abundo. I due conducenti non riuscirono a trovare un accordo sulla responsabilità del sinistro, e quello stesso pomeriggio si ritrovarono in un’officina, dove sarebbe avvenuto il vero e proprio “scontro” tra i due, come descritto nel capo d’imputazione poc’anzi citato.

L’avvocato Gianluca Maria Migliaccio ha puntato a evidenziare le contraddizioni, sia nelle deposizioni rese nel dibattimento di primo grado, sia nelle motivazioni della sentenza del dottor Capuano. Innanzitutto la difesa ha ribadito la pesante perplessità relativa alla circostanza per la quale un agente fuori servizio chiami la centrale operativa per sapere se un’auto con la quale si è “scontrato” abbia o meno la copertura assicurativa: se Bianculli era fuori servizio – si è domandato l’avvocato Migliaccio – che doveri aveva nel caso in questione? E quale atto dell’ufficio o del servizio doveva svolgere? Circostanze che, invece, secondo la difesa disvelerebbero piuttosto un utilizzo di mezzi del proprio ufficio per scopi privati. Fra l’altro, i testimoni avevano evidenziato che i due protagonisti si erano poi ritrovati alla stessa ora del pomeriggio in officina dopo essersi accordati per un appuntamento, smentendo l’affermazione di parte civile secondo cui si era trattata di una coincidenza. Inoltre, una ulteriore contraddizione viene individuata nel fatto che secondo la testimonianza di un altro agente della volante, Le Noci, il Bianculli aveva già bloccato il D’Abundo per l’incidente mattutino, mentre Bianculli testimoniò di aver chiamato la volante prima di bloccare l’imprenditore isolano perché “non avevo paletta, non avevo nulla perché non ero in servizio, ero in abiti civili”, confermando il fatto che non c’era nessun testimone che potesse dare un riscontro del presunto “trascinamento”. Secondo la difesa, dunque, non si riesce a comprendere quale sarebbe l’atto contrario ai doveri d’ufficio che l’agente fu costretto a fare a causa della presunta violenza. Se era fuori servizio, non si capisce quali sarebbero tali doveri, e nemmeno il motivo per chiedere di esibire i documenti di circolazione e assicurativi al D’Abundo. Fra l’altro quest’ultimo non sarebbe stato tenuto a esibirli a uno sconosciuto, a meno che possa ritenersi normale, come osserva l’avvocato Migliaccio, una tale commistione di funzione di polizia e scopi privati. L’agente inoltre prima aveva riferito di non avere nulla con sé, poi però di aver mostrato il tesserino di riconoscimento: delle due l’una. Lo stesso agente Le Noci affermò che Bianculli chiamò la volante perché aveva già bloccato D’Abundo per l’incidente della mattina, e soprattutto Le Noci conferma la veridicità di quanto aveva affermato D’Abundo, cioè che Bianculli chiamò la polizia quando lo aveva già fermato, circostanza ignorata dal giudice di primo grado. Inoltre l’esame di ben tre testimoni, compreso l’agente della volante chiamato dal collega, ha fornito riscontri soltanto alla ricostruzione dell’imputato, e nessuno a quella della parte civile, cosa che avviene anche relativamente alle presunte lesioni lamentate dai due protagonisti: mentre la parte civile ha addotto un referto che parla di contusioni (e non di ecchimosi), il D’Abundo ha prodotto foto che documentano i graffi al volto, causati dall’aggressione che l’imputato affermò di aver subìto in commissariato, dove era stato costretto a restare per tre ore e mezza.

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La strategia difensiva dell’avvocato Migliaccio ha evidenziato una lunga serie di contraddizioni emerse nel dibattimento ma anche nella sentenza di primo grado, che hanno portato ad escludere la condotta contestata, o quantomeno a porre seri dubbi sulla tenuta probatoria della descrizione offerta dall’accusa

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Come si vede, una lunga serie di argomentazioni che hanno smontato la ricostruzione dell’accusa, fino a sfociare nella richiesta di assoluzione perché il fatto non sussiste per entrambi i reati ipotizzati, visto che l’istruttoria dibattimentale aveva pienamente escluso la condotta contestata, o quantomeno aveva posto seri dubbi sulla tenuta probatoria della descrizione offerta dall’accusa. Per le motivazioni, come detto, bisognerà attendere tre mesi.

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