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«Allenarsi a incontrarsi nella diversità è l’unico modo per evitare altre Shoah»

di Isabella Puca
Ischia – «Parlerò finché avrò voce, perché la vita è bella, ma deve essere bella per tutti». Era con questa frase che terminava i suoi interventi Alberta Levi Temin una delle ultime sopravvissute all’olocausto che fino all’agosto dello scorso anno ha portato in giro la sua testimonianza, raccontandola agli studenti di tutta Italia, e alle varie comunità per chiedere loro di non dimenticare. A raccontare la sua esperienza di vita questa volta è la professoressa Diana Pezza Borrelli una delle fondatrici dell’associazione Amicizia ebraico cristiana che mercoledì scorso è stata ospite della scuola media Scotti. «L’ultima volta mi telefonò e mi disse “non ho più voce” quindi parla tu, continua a parlare tu per il dialogo e per l’unità; sono corsa da Ischia a Napoli per salutarla un’ultima volta. Diceva sempre di essere stata messa sul piedistallo, in realtà era stata solo accesa la luce sulla ricchezza della sua vita, della sua testimonianza. All’inizio parlava della Shoah, della sua storia, dell’orrore dei campi, ma a mano a mano che incontrava i ragazzi nelle scuole, nelle comunità cristiane e islamiche, ha colto che non bastava parlare della sua vicenda e basta, ma che quella vicenda serviva a dire “la vita è bella, ma deve esserlo per tutti; io ho vissuto la discriminazione raziale, ma voglio lavorare per il dialogo, per la pace». La professoressa Diana Pezza Borrelli nel suo accorato intervento ha voluto trasmettere ai ragazzi quella regola d’oro presente in tutti i testi sacri e in tutte le culture religiose “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. «Questa frase è scritta fuori la sala dell’assemblea dell’Onu; non è un precetto solo religioso, e quello di oggi non è un incontro che facciamo per raccontare dei fatti, ma per invitarvi a scegliere questa regola di vita. Il vicesindaco e l’assessore nella politica, i docenti nelle scuole e voi nelle vostre classi. Si sente parlare spesso di vicende di bullismo, episodi di violenza, emarginazione, ma la domanda da farsi è: io vorrei che si facesse a me ciò che io sto facendo all’altro? Com’è possibile che ci si alleni a giocare, a sfruttare un’abilità e non ci si alleni al dialogo con l’altro che è diverso da me? Se io non mi alleno a incontrare chi è diverso subentra la paura perché l’altro ha un colore della pelle diverso dal mio, ha un Dio diverso è di genere diverso. Allenarsi a incontrarsi nella diversità è l’unica forma di prevenzione al ripetersi episodi di tragedie, di guerre, come la Shoah». È Alberta Levi Temin a parlare della sua esperienza, tramite un video proiettato ai ragazzi, quella volta che sua madre e sua sorella furono portate via e l’altra volta ancora quando riuscirono a ricongiungersi in quello che non è inopportuno chiamare “miracolo”. «Alberta portava sempre l’esempio di una foto di un giovane soldato tedesco con un fucile puntato alle spalle a un bambino, nel ghetto di Varsavia. Come può un soldato, che sa bene dove sta portando queste persone, a spingere donne che potrebbero essere mogli, madri e bambini che potevano essere figli, sapendo che si andava in un campo di sterminio? Perché era stato allenato all’odio, era stato educato a obbedire senza ragionare». L’intervento della professoressa si è spostato quindi su una figura dello scorso ‘900, Don Milani che in un libro scriveva che “l’obbedienza non è più una virtù”, «il mondo è uno solo, è piccolissimo e dobbiamo salvarlo insieme al di là del colore della pelle, del credo religioso e dell’appartenenza tra Nord e Sud. Alberta andava a scuola a Ferrara alla scuola comunale che era vicino casa; allora le classi non erano miste, erano 40 bambine e Alberta era l’unica bimba ebrea. La mamma le disse che, prima di iniziare le lezioni, avrebbe dovuto alzarsi in piedi come tutte le altre, ma che non avrebbe detto quella preghiera; il suo cuore in silenzio avrebbe detto “Shmà Israel adonai”. Per spiegarle che la differenza con le altre bambine non era poi chissà quale, le fece il disegno di una piramide con tanti lati di base, ognuno dei quali rappresentava un popolo diverso per tradizioni o colore della pelle. C’è chi va in sinagoga, chi in chiesa, chi i moschea o nei templi, ma tutti per vie diverse convergono a un unico punto e da lì sono visti tutti in egual misura. Noi siamo un’unica famiglia umana e dobbiamo lavorare per l’unità e la fraternità o, come capita nelle nostre famiglie, litigheremo e a catena e provocheremo altre forme di shoah».

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