LE OPINIONI

Alzheimer: “La malattia della famiglia”

“Se non riesci a ricordare dove hai messo le chiavi, non pensare subito all’Alzheimer; inizia invece a preoccuparti se non riesci a ricordare a cosa servono le chiavi.” 

Così diceva Rita Levi Montalcini

Oggi, dopo aver ascoltato alcune storie, vorrei complimentarmi con quanti di voi, ogni giorno con coraggio e dedizione, spesso nascondendo dolore, paura e tristezza si prendono cura della propria mamma o del papà, della nanna o del nonno, di uno zio o una zia e dei propri pazienti, affetti da demenza.

La demenza è una patologia progressiva e cronica che colpisce le funzioni cognitive come memoria, capacità di ragionamento, di pianificazione, di giudizio, la sfera comportamentale ed emotiva e comporta una perdita progressiva di autonomia.

La più comune e meglio conosciuta delle demenze è il Morbo di Alzheimer.  Proprio per le importanti ripercussioni della malattia su chi presta assistenza e le ingenti richieste assistenziali hanno portato ad identificare la demenza come “ la malattia della famiglia”.

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In generale, nel senso comune,  si utilizza il termine Caregiver ovvero colui che presta le cure per sottolinea il ruolo di responsabile della presa in carico del malato, solitamente tale figura si rintraccia all’interno del proprio nucleo familiare.

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Secondo i dati del CENSIS in Italia il caregiver  è svolto da donne, le mogli si occupano dei pazienti uomini, le figlie delle madri malate e si concentrano nella fascia  di età compresa tra i 46-60 anni. L’ assistenza al malato di Alzheimer è un’attività che si aggiunge allo svolgimento di altri ruoli (familiari, genitoriali, professionali), con tutte le conseguenze che comporta sulla dimensione affettiva, la disponibilità di tempo e lo stress psicofisico.

Recenti studi hanno evidenziato che, nei caregivers si osservano elevati livelli di sintomatologia ansiosa e depressiva rispetto alla media della popolazione. Alti livelli di stress psicologico, sperimentati nell’assistere il familiare, portano all’aumento del rischio di comportamenti poco salutari: poche ore di sonno, scarso esercizio fisico e ridotta alimentazione.

Spesso la somatizzazione, l’ansia, l’insonnia, la difficoltà a concentrarsi sul lavoro possono rappresentare le uniche modalità di espressione della fatica fisica e psicologica, del dolore e della rabbia, laddove modalità diverse, più “esplicite” e aggressive, provocherebbero insopportabili sensi di colpa. Arrivano ad un punto in cui non sanno se riusciranno a gestire ulteriormente la situazione, sperimentando così paura e dubbi sul proprio futuro.

La solitudine, un sentimento di “svuotamento emotivo”, è piuttosto diffusa: molti caregivers tendono ad isolarsi insieme al malato e a rimanere confinati in casa. Questo isolamento peggiora la situazione e rende ancora più gravosa l’assistenza alla persona ammalata.

Emerge chiaramente come gli oneri assistenziali, economici e psicologici abbiano un impatto forte sulla qualità della vita del caregiver e della sua famiglia. Importante diventa il beneficiare di incontri specifici, di sostegno individuali e di gruppo, che permettono di trovare nuove strategie per gestire lo stress assistenziale e migliorare la qualità della vita di chi si prende cura e del malato stesso, dando una migliore assistenza al congiunto.

Diventano opportuni gli interventi di psico-educazione che hanno come obiettivo la promozione del benessere e aiutano ad avere una positiva ricaduta sulla capacità di comprensione e gestione dei disturbi dei caregivers,

L’intervento permette, infine, la condivisione delle problematiche con altri familiari e di contrastare le difficoltà vissute e di rimotivare il caregiver  attraverso il confronto con quanti vivono la stessa situazione. Credo che siano molto utili i gruppi di auto mutuo aiuto, perché il confronto e il supporto sociale in questi casi è fondamentale, sapere che non si è soli e si ha la possibilità di condividere con chi “condivide”, le nostre stesse paure, angosce, preoccupazioni è fondamentale.

Quando perdiamo una persona cara, la cerchiamo in oggetti, immagini, ricordi e a volte ci sembra di “trovarla”; ma quando l’oggetto d’amore non è sparito, ma continua ad esser accanto a noi, completamente trasformato, non abbiamo la possibilità di elaborare un lutto, rimanendo “bloccati” in un costante senso di perdita, che si rinnova ogni giorno, perché, proprio per le “normali” fluttuazioni della malattia, abbiamo barlumi di speranza (oggi è riuscita ad aprire la porta! Oggi ha chiamato il nipotino per nome!). Il lutto di una morte è accompagnato dalla vicinanza di parenti e amici, e per quanto difficile riusciamo ad accettare l’assenza fisica di quella persona. Con l’ Alzheimer è tutto diverso perché le esigenze sono ogni giorno maggiori; non si sa a chi rivolgersi dal momento che prima, nelle difficoltà, si ricorreva a chi ora è demente. La “persona”, ad un certo punto, non esiste più come “persona olistica”, caratterizzata da una relazione fondata sulla comunicazione, sulla comprensione, sulle emozioni condivise, sugli affetti che formano legami, anche se esiste un “corpo”, fisicamente presente, che pone o impone problemi. Accudire un paziente con Alzheimer risulta quindi estremamente impegnativo perché non permette momenti di tregua né di giorno, né di notte. È una malattia che affligge, non solo chi non ricorda come si usino le chiavi, ma  anche indirettamente chi dovrà usarle per loro conto.

Grazie.

“Liberamente” è curata da Ilaria Castagna, psicologa, laureata presso l’Università degli Studi de L’Aquila, specializzanda presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva Comportamentale di Caserta A.T. Beck

Tel: 3456260689

Email: castagna.ilaria@yahoo.com

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