CULTURA & SOCIETA'

Antoine Fuqua a Ischia Global: «Girerò un film contro lo schiavismo, l’America è ancora razzista»

Premiato al festival come regista dell’anno, il cineasta ha parlato dei suoi progetti futuri: un action movie con Mark Wahlberg, una storia potente contro la schiavitù e due documentari, su Muhammad Alì e Suge Knight

«Amo Ischia. Venire al festival del cinema è sempre interessante, perché mi fa capire che il mondo è molto più grande di Hollywood.» A dirlo è Antoine Fuqua, cineasta di thriller urbani dal ritmo indiavolato, premiato all’ultima giornata del Global Fest come filmmaker dell’anno. Cinquantatre anni portati magnificamente, regista con l’adrenalina nel sangue e autore di action movie che mescolano la riscrittura della letteratura hard boiled con i toni melodrammatici del feuilleton, la tradizione metropolitana della narrativa popolare con una fierezza visiva coltivata grazie a una lunga gavetta negli spot e a uno spiccato e personale senso dello stile, Fuqua è noto al pubblico europea soprattutto per “Training day” (2001), poliziesco con cui dimostra all’industria di Hollywood tutto il suo talento e la capacità di mettere in scena personaggi contraddittori e indelebili. Uno dei drammi di polizia più emozionanti del decennio che vale ai due interpreti (Denzel Washington e Ethan Hawke) la nomination agli Oscar come migliori attori protagonisti e per Washington la seconda vittoria della prestigiosa statuetta.

«Sono prossimo a girare “Infinite”, storia di un uomo perseguitato dalle memorie di due vite passate che si imbatte in un gruppo di persone, membri di un’associazione segreta, dotati dello stesso potere che sembrano aver interferito con numerosi cambiamenti nella storia dell’umanità. Il protagonista sarà Mark Wahlberg, ma sto già pensando a qualcosa di completamente diverso».
Un film sullo schiavismo. «Ma raccontato in modo del tutto nuovo, qualcosa che riguarda anche i danni contro la natura e l’ambiente. Sarà un film molto realistico, diverso da quelli che sono stati fatti a Hollywood sulla schiavitù e con riflessioni ancora più difficili di quelle che finora ho affrontato nei miei lavori.»

Che momento vive la comunità afroamericana con Trump alla Casa Bianca? «Non posso parlare a nome di tutta la comunità, ma è avvilente che ancora oggi dobbiamo assistere a pestaggi e assassini ai danni degli afroamericani semplicemente per odio razziale o per un diverso colore della pelle. D’altro canto ricordo che, quando era presidente Obama, tutto veniva criticato nel minimo dettaglio; anche le cose più normali venivano fatte passare per oltraggi. Dicevano: chi si crede di essere? I media creavano dibattiti perfino su cosa indossava sua moglie Michelle. Un vestito smanicato veniva bersagliato come la cosa più oltraggiosa del mondo. Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro per descrivere quello che è la situazione attuale, ora che alla Casa Bianca è arrivato Trump. E’ un momento difficile cosi come in altri paesi: dobbiamo capire e decidere che tipo di persone siamo e che popolo vogliamo essere.»

Entrando a pieno diritto in quella generazione di cineasti neri americani (Spike Lee, John Singleton, Ryan Coogler, Lee Daniels, Jordan Peele, F. Cary Gray) che hanno messo il proprio talento al servizio dello spettacolo e dell’industria cinematografica mainstream, Fuqua deve confrontarsi con le nuove piattaforme che producono e distribuiscono audiovisivo. «Lo sviluppo di tutti questi nuovi media – osserva – è positivo. Stiamo vivendo un bel momento; grazie a queste nuove piattaforme è possibile raccontare storia diverse che altrimenti non verrebbero mai prese in considerazione dagli studios, né arriverebbero mai sullo schermo. Nel mondo esistono tantissimi registi, scrittori, interpreti che forse, grazie a queste piattaforme, potranno ancora esprimersi e far arrivare i loro prodotti a un pubblico che altrimenti non li avrebbe mai visti.»

A proposito di simboli afroamericani, nella filmografia recente di Fuqua anche due documentari: “What’s my name: Muhammad Ali” e “American dream/American Knightmare” (sul produttore di gangsta rap Suge Knight). «Ho sempre ammirato Muhammad Alì, il suo coraggio non solo come pugile, come essere umano. Oltre essere stato un grande boxeur, ha fatto tantissimo per le cause umanitarie. E’ sempre stata il mio eroe e adesso, dopo il documentario, lo rispetto ancora di più. Mi sono avvicinato alla sua storia con rispetto ed emozione. Amava le persone, per lui contavano moltissimo.» E Suge Knight? «La scena hip hop americana è sempre stata intrisa di una certa violenza che mi interessava raccontare. L’industria discografica musicale è l’unico settore dove si ammazzano tra di loro: lo vedreste un regista che spara a un altro? In quel mondo invece accade. Suge Knight era il proprietario della compagnia discografica Death Row Records per la quale lavorava il rapper Tupac Shakur, brutalmente assassinato nel 1996. Ho realizzato quel documentario perché credo che sia venuto il momento di fare luce su una vicenda criminale che ha segnato la musica rap americana. E’ una sua responsabilità spiegare cosa sia successo. Soprattutto ai giovani, che seguono quella musica e quel mondo.»

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