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“Island”, l’isola di Antonio

Gianluca Castagna | Ischia – Tellurica o riflessiva, la musica di Antonio Monti sembra intrisa dal fuoco e dalle forze ingovernabili della natura che disegnano gli scenari dove vive e lavora. Un mondo di suoni che, anche nelle trame più intricate o nervose, rivela una grande apertura nelle linee melodiche e nelle pazienti rifiniture degli arrangiamenti.Co n “Island”, pubblicato cinque anni dopo il suo esordio discografico “Attorno al fuoco”, il musicista ischitano compie un viaggio al termine dell’isola, richiamando alla mente, sua e di chi ascolta (perché solo così il viaggio è completo), il fascino antico di cose perdute e l’energia ancestrale che continua ad agitarsi furiosa sotto una scorza di rara e ingannevole bellezza.
Otto brani di forza e fragilità, luci e ombre, armonia e conflittualità per un lavoro interamente strumentale, intimo ed evocativo, forse anche notturno (come da copertina), nel quale convergono attitudini personali, visioni misteriose, pennellate d’improvvisa inquietudine e riferimenti stilistici dell’immediata contemporaneità.

La chitarra acustica è al centro di tutta la poetica espressiva, le corde sono accarezzate o pizzicate per un suono quanto più possibile naturale, la punteggiatura musicale resta al servizio della ricchezza, anche contrastata, del viaggio e dei suoi approdi più o meno provvisori. Ultimi avamposti dell’umano sentire.
“Island”, composto, suonato e prodotto da Antonio Monti in quel terreno fertile di autentica ispirazione musicale che può essere la solitudine, è una scoperta che aiuta a capire anche la nostra antropologia, se solo si rinuncia per un attimo al bizzarro pregiudizio che noi non siamo più isolani/isolati soltanto perché usiamo uno smartphone o ci illudiamo, come recita l’ottimismo informatico, di vivere in un mondo in cui chiunque può essere dovunque in ogni momento. Liberi e lontani, anche noi, dai luoghi circoscritti e familiari delle origini.
E’ davvero così? Il Golfo ha incontrato il chitarrista ischitano.
Parlami di questo disco. Da dove nasce?
«La pubblicazione di “Island” è stata preceduta da un lungo lavoro di riflessione, di pensiero legato alla mia esperienza, non solo di musicista. Mentre il disco precedente, “Attorno al fuoco”, raccoglieva storie diverse sull’onda di un entusiasmo nato dall’approccio a nuovi mezzi espressivi, qui le idee erano più chiare, meditate, funzionali a un racconto preciso: l’isola, o meglio l’insularità come condizione emotiva. Che può essere un limite, ma nel limite si nasconde la forza. E io l’ho cercata».
Dove lo hai registrato?
«A casa mia, in meno di una settimana. Distillando troppo nel tempo la registrazione, avrei rischiato di perdere il respiro vitale di un discorso narrativo che avevo già messo a fuoco e non volevo venisse interrotto. Tutto suonato da me, ma avvalendomi di professionalità come quella di Pino Forastiere, basilisco trapiantato a Roma. E’ un profondo conoscitore della chitarra acustica e mio mentore quando ho cominciato lo studio di questo strumento. Bello e infame».
Perché infame?
«Nell’immaginario collettivo è forse lo strumento musicale più facile da suonare. In parte lo è, ma le potenzialità di una chitarra acustica, come quella di altri strumenti, sono enormi. Quando vai ad amplificarne il suono, rischi di snaturarlo e io, invece, volevo che uscisse quanto più autentico e naturale possibile. Non è semplicissimo, è uno strumento assai sensibile a ogni variazione esterna. Credo però di esserci riuscito. Con la pubblicazione di “Island”, il cerchio si è chiuso. C’erano delle cose necessarie da dire e io le ho dette. Quanto potevo pensarle meglio? Sarà il passo successivo della mia maturazione»
Proprio perché nella tua musica non ci sono parole, i titoli dei brani sono decisivi e densi di significato. Da cosa trai ispirazione quando li scegli?
«E’ sempre stato difficile per me, malgrado mi piaccia giocare con i titoli. Vedi, i brani nascono in maniera molto diversa, a volte da avvenimenti della mia vita, altre da esperienze apparentemente dimenticate che in qualche misteriosa maniera sono rimaste nella memoria. Stavolta i titoli erano un po’ nell’aria, sapevo quello che volevo esprimere. Perfino la scaletta ha seguito una via naturale sottolineando un percorso narrativo legato certamente all’isola d’Ischia, ma con rimandi che vanno oltre le coordinate geografiche. Penso a una frase pronunciata dal duca John of Gand nel “Riccardo II” di Shakespeare, quando, a proposito dell’Inghilterra, ne parla come di una pietra preziosa incastonata in un mare d’argento. Un’immagine che mi è rimasta dentro. Anche nel mio disco, in un certo senso, c’è una terra e un mare d’argento attorno. E due pezzi, “The Green Stone” e “Silver Sea”, che la raccontano».
Quali sono i sommovimenti nascosti in “Hidden Activity”?
«Ciò che si agita sotto i nostri piedi. Anche quando è silente, c’è e non sente ragioni. Puoi chiamarla Tifeo, se vuoi. Osservando le meraviglie dell’isola, la sua bellezza, sento che cela una forza infernale. Passata ma non esaurita, anzi, in continuo divenire. Non parlo di categorie come “bello” o “brutto”, “buono” o “cattivo”, ma di verità».

Come comincia l’avventura?
«Non sono nato con la chitarra in mano, ma ho sempre avuto una predisposizione all’ascolto. L’approccio con lo strumento è arrivato tardi, sentivo che la musica era una parte della mia vita, mi aiutava a guardarmi dentro e la riempiva in momenti ben precisi. Momenti non frivoli. Verso la fine degli anni 90, ho lasciato che questa passione diventasse esclusiva. Il mio primo amore è stato la chitarra elettrica; quella acustica l’ho incontrata dopo, quando ho capito che si sposava meglio con le mie esigenze espressive. Sono stati passi ponderati e sofferti. Ma testimoniano un cammino».
Non pensi mai che trasferirti altrove potrebbe aumentare la visibilità del tuo lavoro e ampliare le opportunità di scambio e collaborazione con musicisti di rilievo?
«Ho già fatto molte esperienze fuori, attraversato ambienti abitati da linguaggi musicali diversi, scambi che coltivo tuttora. Non credo che l’isola, e il suo magnetismo, rischino di condurmi a una chiusura creativa. Ci sono persone, scelte non a caso, che sono in sintonia con me e con cui riesco a confrontarmi in maniera molto libera. Non solo musicisti, ma persone che osservano la realtà dell’isola con molta attenzione. Questi scambi sono assolutamente salutari. Ho imparato ad avere un rapporto molto rilassato con la terra dove vivo, mi piace suonare qui, lo faccio ogni volta che mi si presenta una situazione congeniale. Nel disco si sono episodi nervosi, anche un po’ cattivi, con una massa musicale notevole. E altri momenti di grande pacificazione, come “The Keeper”, che ho composto sull’eremo di San Nicola all’Epomeo. Sono ischitano, contento di esserlo, ma quello che faccio non è legato solo all’isola. I miei lavori hanno un respiro più ampio. Ora si tratta di capire come possano viaggiare».
Hai già qualche idea?
«Da ‘Hidden Activity’ verrà tratto un video, realizzato con The Mother Factory e prodotto dalla CandyRat Records, etichetta discografica americana che si dedica principalmente alla sponsorizzazione di musica per chitarra acustica. “Hidden activity” è un pezzo anomalo, nasce dal desiderio di sondare un territorio forse inedito, ma è un brano che sottolinea in pieno la mia idea di musica in questo momento. Ho anche un sito, www.antoniomonti.com».
Perché non ti sei mai confrontato con le parole e con il canto?
«Le parole le ho scoperte da poco. Anni fa ho portato in giro degli spettacoli teatrali itineranti. Per il mio modo di scrivere, è stata un’esperienza importante. Testi non miei, chiaramente; la scrittura in forma canzone non mi interessa. Nemmeno il canto. Ho suonato e accompagnato dei cantanti, in passato. Poi ho focalizzato quello che davvero volevo fare: il canto e la canzone non rientrano nei miei orizzonti».

Com’è il tuo rapporto con la dimensione live? E’ cambiato nel tempo?
«Non sono un performer nato. Ho bisogno di una certa tranquillità per entrare nel mood giusto e comunicare quel che voglio comunicare. Qualche anno fa c’era una voglia maggiore di esibirsi, farsi notare. Oggi è diverso, è una smania che ho imparato a decodificare e tenere a bada».
La solitudine sul palco?
«Una libertà e una responsabilità. Suono un solo strumento, ma l’intenzione è offrire qualcosa di completo, quindi massima concentrazione sulla musica per non far percepire la mancanza di altri elementi. Il pubblico è fondamentale: se c’è interesse, la predisposizione e l’atteggiamento cambiano. Ci si sente meno soli. La condivisione con altri musicisti può essere meravigliosa, lo è stato anche per me, ma in questo momento, sento che è più importante concentrarmi sulle cose che ho da dire. Credo che la motivazione più importante sia sempre comunicare, dimenticando gli aspetti esterni o accessori».
Chi sono i tuoi interlocutori sull’isola?
«Ho suonato spesso qui, cercando di promuovere il mio lavoro. Al Castello, al Torrione di Forio, sull’Eremo. Dopo il mio primo disco, “Attorno al fuoco”, recensito anche negli Usa, mi sono proposto a locali, hotel, anche qualche pubblica amministrazione. Che dire? Non è un prodotto che li ha interessati granchè».
Parlami della tua collaborazione con Salvatore Ronga. La partitura che hai composto per “Di Vino, di Mare e di Zolfo” è finita su “Island”.
«Era inevitabile, legata com’è al discorso che volevo fare. La fortuna di lavorare con Salvatore è che sviluppiamo una linea di pensiero comune anche se partiamo da ambiti diversi. Questo permette di portare il suono, e la composizione musicale, nella giusta direzione. Quella che dà senso al testo e viceversa. E’ accaduto con “Di Vino, di Mare e di Zolfo” come con le “Metamorfosi”. Presto lavoreremo ancora insieme. In Salvatore Ronga, e nelle persone che collaborano con lui, ho trovato un’oasi nel deserto».
Hai superato i 40, la conquista più grossa?
«Riprendere in mano il mio tempo. Passa, ma al di là della frenesia dettata dai ritmi della quotidianità, oggi riesco a viverlo in maniera naturale, a modo mio».
Come ci si riesce?
«Schiattando in corpo, ahahahah. E selezionando molto. Anche dal punto di vista artistico, oggi c’è troppa fretta, approssimazione, non c’è spazio per la riflessione. L’abuso della tecnica, ad esempio, è diventato radicale a dispetto di alcune cose che invece dovrebbe avere la precedenza. Tanti progetti artistici, anche qui sull’isola, sono compromessi dalla fretta, dalla superficialità, dalle scorciatoie di luoghi comuni che non funzionano più e si ostinano a riproporre».
“Island” è dedicato a tuo padre, perché?
«E’ una figura importante, ora che non c’è più ho iniziato a guardarlo senza troppi filtri. Un figlio di quest’isola, con i suoi pregi e i suoi difetti. Rotondo, senza tanti spigoli. Mio padre e mia madre mi hanno permesso di seguire un percorso di crescita molto personale perché hanno capito che per me era importante. Lo hanno fatto senza crearmi problemi. Se oggi riesco a fare il musicista, lo devo anche a loro».
Ti emoziona ancora la musica?
«Certo, anche ascoltando generi molto lontani da quelli che faccio. Ci sono momenti in cui il piacere di sentire della musica è talmente spontaneo, forte, che diventa come respirare, nutrirti. Il segreto è saper ascoltare anche se stessi, capire cosa si sta cercando. Se hai bisogno di essere confortato, distratto, o pensare a qualcosa in particolare. Nella musica puoi trovare tutto, basta cercare».
(photo: Luigi Trani, Lucia De Luise, Anna Di Meglio)

 

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