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Che senso ha il “senso comune”? E qual è il senso comune degli ischitani?

Ciò che, fino a poco tempo fa, distingueva l’informazione scritta (la stampa) nonché quella televisiva (con immagini) dai semplici scambi di opinione e informazione che avvengono tra normali cittadini in piazze (reali o virtuali) era il filtraggio critico, il senso di responsabilità che i redattori e i direttori di giornali e TV sentivano di avere nei riguardi della platea di lettori o utenti televisivi. Adesso avviene che il “parere qualificato” non conta più dell’opinione di un qualsiasi frequentatore di social. Non esistono più “opinion leader” dell’informazione, ma indistinti ed equivalenti operatori di una melassa informativa. I giornali, anziché rafforzare e potenziare la loro capacità e qualità critica, inseguono i social e puntano tutto sulle immagini, sulla grafica e sulle reazioni socialpopolari agli eventi. Sembra voler cambiare registro il quotidiano La Repubblica che promette, da mercoledì 22 novembre, di presentare un giornale tutto nuovo che aspira a diventare “una bussola di orientamento nella stagione delle fake news e delle tribù digitali, dove a prevalere è l’opinione di chi urla di più e non quella di chi è più competente”.

Ma andiamo in ordine. Dalle 20,20 alle 20,40 di ogni giorno, su RAI 3, va in onda il programma “Senso Comune” dove avvengono, su un tema scelto volta per volta, confronti tra coppie (a volte a tre). Il tutto è lasciato ai protagonisti, senza commenti. Questo sta a dire che spetta all’utente televisivo farsi un’idea su quello che normali cittadini pensano. E’ l’adattamento della televisione alla logica dei social. Quando poi i confronti avvengono sempre tra le stesse coppie o lo stesso trio: gli ombrellari Mario e Mario (che hanno avuto anche modo di esaltare il “coniglio all’ischitana”), le polendancer, gli universitari, l’ex pilota e il carrozziere, le yogine, gli edicolanti, i panettieri, i tassisti, l’allenatore e il rugbista, il cameriere e la cassiera, le sorelle ballerine, i pallanuotisti, avviene che il mezzo televisivo esalta la spiritosaggine e la simpatia dei personaggi (scelti con avvedutezza) e le loro boutade assurgono a “verità di popolo”. Sembrano considerazioni frivole queste che sto sottoponendovi, ma permettetemi di dire che così non è.

Un importante professore della Scuola di Alti Studi in Scienze Sociali francese, Marcel Gauchet, che ha molto studiato e riflettuto sulle ragioni del decadimento della politica, ha dichiarato , in una recente intervista a Repubblica: “La politica ha perso quel poco di autorità naturale ereditata dal passato che ancora le restava, perché i politici hanno fatto di tutto per mettersi all’altezza dell’uomo qualunque, inseguendo il senso comune, l’opinione diffusa, puntando sulla comunicazione e sulla seduzione”. Va detto che anche tra gli intellettuali non c’è chiarezza di idee e unanimità di giudizio sul valore del “senso comune”. C’è chi lo esalta, ritenendolo l’unica autentica e democratica forma di sapere e chi lo ritiene una forma rozza e pericolosa di pseudo sapere. Karl Popper, nel 2005, pubblicò un importante libro dal titolo: “ La Scienza, la Filosofia e il senso comune”. In esso esplicitò l’idea che “Tutta la scienza e tutta la filosofia sono senso comune illuminato”. Sempre Popper, in un altro suo saggio del 1994, dal titolo “Tutta la vita è risolvere problemi” scrisse: “Io sono un grande ammiratore del senso comune, io sostengo addirittura che, se noi ci muoviamo a un livello non troppo critico, il senso comune è, in tutte le possibili situazioni problematiche, il consigliere più valido e affidabile”.

A fronte di questi pareri, ce ne sono altri diametralmente opposti, come ad esempio Charles Beaudelaire : “Diffidiamo del popolo, del buon senso, del cuore, dell’ispirazione e dell’evidenza” (da Il mio cuore messo a nudo). C’è poi Giambattista Vico che, nel saggio Degnità della Scienza Nuova, afferma : “Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una Nazione o da tutto il genere umano”.  A volte, però, le diversità di giudizio che si dà sul senso comune dipende dalla confusione che si fa con il “buon senso”. Non si tratta della stessa cosa . Storicamente avvenne una frattura fra i due termini, nel secolo dei Lumi, quando si considerò il popolo europeo schiavo dell’ignoranza e della superstizione. Fu da allora che per “senso comune” si intese l’insieme di credenze, spesso infondate, che danno al popolo la sensazione di possedere certezze. Mentre per “buon senso” si intese il senso critico col quale il pensatore analizza una serie di asserzioni alla ricerca della verità, ma con buona dose di concretezza e di moderazione.

Ma oggi come stanno le cose? Allo stesso modo del secolo dei Lumi? Forse è scemato il grado di superstizione, sicuramente è aumentato il livello di istruzione, ma l’omologazione della società consumistica e dell’eterna connessione sui social, con tutta probabilità, continua a comprimere la capacità di giudizio ponderato da parte dell’opinione pubblica. E se le condizioni attuali determinano un “ senso comune” appiattito, affievolito, asfittico anche se stizzito ed incapace di aumentare il livello qualitativo, sarà allora il caso che si riprenda a dar credito a quei soggetti, opinion leader, maitre à pénser, in grado di fungere da nocchieri di vita. Non si tratta di abiurare la democrazia per forme elitarie di società, si tratta di evitare che l’eguaglianza si avveri nel basso, nell’infimo del dibattito, del confronto, dell’elaborazione del pensiero. Detto ciò, mi chiedo e chiedo una riflessione ai lettori: Ischia, rispetto a questa tendenza nazionale ( e non solo nazionale), come si comporta? Chiediamoci perché, a fronte del fervore che invade Facebook, non corrisponda, nell’isola, un fervore analogo nella vita istituzionale e politica. Chiediamoci perché si maramaldeggia nei giudizi in rete, anche in maniera esplicita e dura, nei riguardi dei governanti locali e poi non si traduce tale rabbia e aggressività in atti concreti (ad esempio si continua a votare per amicizia, parentela o clientela).

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Emblematica una risposta data da un diciottenne al giornalista Aldo Cazzullo del Corriere della Sera. Alla domanda sul perché avesse intenzione di non votare, la risposta è stata: “perché dico già la mia, ogni giorno, in rete”. Ecco una chiave di lettura, valida anche per Ischia; molti ( soprattutto giovani) preferiscono esprimere (anche violentemente) i propri giudizi in rete, perché gli dà visibilità. Il voto no, è anonimo, invisibile e, secondo i canoni della società dell’immagine e della comunicazione, non serve o, se viene espresso, non implica impegno ideale ed etico (tanto nessuno ti vede e sa) e quindi tanto vale perseguire, col voto, prosaici interessi clientelari, parentali o amicali  I politici attuali (nazionali e locali) sembrano dare importanza al “ senso comune” ma non perché si voglia attingere, da esso, saggezza popolare, quanto piuttosto per trovare il modo, il grimaldello per avvincere il consenso. E non c’è da meravigliarsi, se pensiamo che già Antonio Gramsci che, nel quaderno 24 dei Quaderni dal Carcere, si occupò del “senso comune” riteneva marxianamente di dover incidere sul “senso comune” (ritenuto il folclore della filosofia) per l’obiettivo di ribaltamento della società borghese. In altre parole è il concetto gramsciano della funzione degli intellettuali, applicato ad un gradino più basso nella scala della cultura. Per rivoluzionare la società, bisogna – secondo Gramsci – occupare le casematte della cultura e dei centri di formazione del consenso. Oggi, Gramsci desidererebbe essere un “ influenzer” ( come si dice in linguaggio moderno) della rete. Senza scomodare ulteriormente Gramsci e Marx, è come se i politici fossero rimasti all’antico stoicismo, che definiva il senso comune “consensus gentium”, il consenso generale. E’ solo quello che, in definitiva, importa: il voto!

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Franco Borgogna

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