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Coppia accusata di spaccio, arriva la condanna

ISCHIA. Due anni e sei mesi di reclusione, pagamento delle spese processuali e una multa consistente, pari a ventimila euro. In più, anche il divieto di espatrio e ritiro della patente di guida per tre anni. Nonostante la concessione delle attenuanti generiche, è questo il duro verdetto del giudice emesso ieri nella sede ischitana del Tribunale dove è andato in scena l’ultimo atto del processo nei confronti di una giovane coppia di ragazzi residenti a Serrara Fontana, colpiti nel giugno di due anni fa dall’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti. Come si ricorderà, i due vennero arrestati in seguito a una serie di controlli compiuti dagli uomini dell’Arma dei Carabinieri coordinati dal capitano Centrella nella notte tra il 9 e il 10 giugno 2017, controlli in seguito ai quali furono rinvenute alcune dosi di stupefacenti in possesso della coppia.  Nonostante i due ventenni fossero stati tratti in arresto, il Gip del Tribunale di Napoli ritenne di non convalidare l’arresto, disponendo la misura dell’obbligo di dimora nel comune di residenza per Francesco Iacono, e l’obbligo di firma quotidiana  per Federica Di Costanzo, restrizioni che dopo poco tempo furono completamente revocate.

La condanna ha superato la richiesta del pubblico ministero, il quale ieri durante la discussione finale aveva invocato una pena di un anno e sei mesi di reclusione.

Di tutt’altro segno, ovviamente, le conclusioni formulate dagli avvocati Roberto Iacono e Giuliano Di Meglio, che hanno assunto la difesa degli imputati a procedimento in corso. Il primo ha sintetizzato le tappe fondamentali della vicenda, sottolineando come l’accusa si sia basata su un’attività investigativa definita come lacunosa, negando decisamente la possibilità che anche uno solo dei due giovani potesse essere dedito all’attività di spaccio. Sulla circostanza del ritrovamento di alcuni appunti con cifre e nominativi corrispondenti, la difesa ha sostenuto che si trattasse di crediti vantati dall’imputato nei confronti di alcuni clienti del centro-scommesse che il ragazzo gestiva. Dunque non sarebbero stati ipotetici acquirenti di stupefacenti, come sostenuto dall’accusa. Gli stessi agenti di polizia giudiziaria, intervenuti in gran numero, molti dei quali in borghese, non riscontrarono alcun episodio di cessione di stupefacenti. Inoltre, durante la perquisizione della vicina abitazione del giovane, che spontaneamente consegnò un altro flacone contenente la sostanza, non fu rinvenuto nessuno strumento idoneo all’attività di spaccio. La somma di denaro sequestrata, cinquemila euro, tutte in banconote di grossa taglia, non era altro che il provento dell’attività lavorativa dell’imputato presso il centro scommesse. Somma che il ragazzo depositava in banca per pagare le spese all’agenzia di scommesse. Fra l’altro, le condizioni economiche della famiglia del giovane Iacono non erano disagiate: lo stabile di cui faceva parte era di proprietà della stessa famiglia, nota nel paese e comunque piuttosto abbiente. Non c’erano dunque necessità primarie da soddisfare o che potessero indurre il ragazzo a darsi allo spaccio, anche perché nonostante la condizione di benestante egli aveva sempre svolto attività lavorative sin dalla più giovane età. La sostanza rinvenuta dunque era diretta a soddisfare il consumo personale, e la quantità costituiva una modica scorta in quanto nella zona dell’isola in cui l’imputato vive è piuttosto difficile procurarsi lo stupefacente (che veniva acquistato a Napoli, dove egli si recava una volta settimana durante il giorno di chiusura dell’attività). Uso personale che fu dovuto in parte anche alla vulnerabilità cui fu soggetto il ragazzo in seguito ad alcune contrarietà incontrate dopo aver avviato l’attività del centro-scommesse. L’avvocato Iacono ha evidenziato l’incensuratezza del suo assistito e l’atteggiamento totalmente collaborativo assunto a contatto con le forze dell’ordine intervenute quella sera di giugno di due anni fa. In definitiva, nessun riscontro è emerso dalle scarne indagini e dal dibattimento per ipotizzare il reato di spaccio: di qui la richiesta di assoluzione perché il fatto non sussiste,  e in subordine il minimo della pena con tutti i benefici di legge. È stata poi la volta dell’avvocato Di Meglio, difensore della Di Costanzo. Il legale ha evidenziato come il possesso di sostanza non integra di per sé il reato di spaccio. Nel caso in questione, il quantitativo era invero non ingente. L’avvocato ha ribadito la lacunosità delle indagini dal punto di vista delle attività di osservazione, controllo e pedinamento, durata un quarto d’ora. Fra l’altro, anche gli amici incontrati dalla coppia al bar non avevano con sé  somme di denaro tali da poter acquistare dosi di sostanza, e comunque non avevano ricevuto alcuna delle dosi rinvenute nel borsello degli imputati. Nessun elemento, dunque, potrebbe indurre a delineare una cessione di stupefacenti e quindi l’attività di spaccio. Anche il denaro rinvenuto nell’appartamento non era riconducibile a un’attività del genere, viste le condizioni economiche e il lavoro ben remunerato da parte del ragazzo. Inoltre, l’allora fidanzata si è ritrovata coinvolta in una situazione alla quale era assolutamente estranea: la rottura del legame sentimentale tra i due avvenne proprio in quel periodo, a seguito della scoperta dell’uso di sostanza a cui era dedito il compagno. Di conseguenza anche l’avvocato Di Meglio ha chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste, o in subordine per non averlo commesso. Tuttavia, il giudice ha ritenuto sussistente l’ipotesi avanzata dall’accusa, senza distinzioni di pena tra i due imputati: la suddivisione in dosi della sostanza (cocaina), il quantitativo di denaro, hanno costituito un quadro che verosimilmente ha avuto parte preponderante nella decisione finale.

FRANCESCO FERRANDINO

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