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Cupio dissolvi

Gentile Professore,

mi sembrava di averle viste tutte, ma la strage di ragazzini e bambini alla Manchester Arena, eseguito da un kamikaze dell’ISIS, mi ha lasciato senza parole. Forse perché sono padre di due giovanissime, improvvisamente, ho sentito che a questa nuova generazione sembra riservata una “cognizione del dolore” improvvisa e senza senso, come lo scoppio di una bomba nel bel mezzo di un gioioso concerto pop.

Mi domando: come si può amare a tal punto la morte da farsene possedere totalmente e mettersi al suo servizio? Di quale lavaggio del cervello c’è bisogno per giungere a tanto? Oppure, al contrario, chiunque di noi potrebbe impazzire all’improvviso e trasformarsi in un cieco strumento di distruzione?

***

Gentile Lettore,

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era il 1972 quando Francesco Guccini incise una delle sue più popolari canzoni: “La locomotiva” [https://youtu.be/KeX1Yb8CSjw], ispirata alla vicenda di un macchinista anarchico, Pietro Rigosi, che, nel 1893, aveva diretto a tutta forza il proprio mezzo verso la stazione di Bologna. All’ultimo istante, il disastro fu evitato deviando il treno su un binario morto. Nell’impatto, Rigosi fu sbalzato fuori e, sebbene gravemente ferito, si salvò. L’avvenimento fu codificato dalle autorità come un temporaneo raptus di follia e risolto con il licenziamento del ferroviere. Forse fu un modo per nascondersi il problema e rassicurare i futuri viaggiatori sui i rischi che un simile accidente potesse ripetersi.

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L’acuta e poetica lettura dell’episodio compiuta dal cantautore modenese è, invece, che il tanto decantato potere della macchina del progresso – del quale all’epoca il treno rappresentava il massimo emblema – contenesse in sé una minaccia altrettanto esplosiva, quella della distruzione di un ordine sociale classista e ingiusto, e che il macchinista fosse, dunque, un eroe proletario.

Bisogna possedere una grande sensibilità poetica per cogliere nella brutalità cieca e indifferenziata il segno di un originario gesto creativo, che, a causa di una disperata impotenza, si è tramutato in volontà distruttiva. È più facile per noi rifuggire dalla potenziale immedesimazione nell’omicida (che è tutt’altro dalla giustificazione ai suoi atti nefandi), rifiutando così di riconoscerci come esseri abitati da sentimenti mostruosamente nichilistici, per seguitare a credere che essi appartengano soltanto a menti malate, deviate, perverse. Nulla di più falso e illusorio.

Già nel 1929 Sigmund Freud scriveva: «[…] non riesco proprio a capire come abbiamo potuto trascurare la presenza ubiquitaria dell’impulso aggressivo e distruttivo non erotico, omettendo di assegnargli il posto che gli spetta nell’interpretazione della vita (la smania distruttiva rivolta verso l’interno, quando non è tinta dall’erotismo, generalmente elude la nostra percezione). Ricordo come io stesso rifuggii all’idea di una pulsione distruttiva quando emerse per la prima volta nella letteratura psicoanalitica e quanto tempo mi ci volle prima che fossi disposto ad ammetterla. Che altri mostrassero e mostrino tutt’ora lo stesso atteggiamento di rifiuto, mi sorprende meno. “I bambini non ascoltano volentieri” quando si parla della tendenza innata dell’uomo al “male”, all’aggressione, alla distruzione e perciò anche alla crudeltà.» [Il disagio della civiltà, in Opere, Vol. X, Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti – 1924-1929, Boringhieri, Torino, 1978/1989 – pp. 606-607].

Dunque, lo scienziato viennese solleva il velo sul vertiginoso abisso che la superficie adattata e dell’individuo e della collettività celano. Proprio la percezione di questo baratro è quanto, invece, può salvarci dallo smettere di profondere i nostri sforzi a favore del fragilissimo edificio della civiltà – un costrutto da  curare e sviluppare giorno dopo giorno. Sempre si annida in noi, di fatti, la tentazione di abbandonarci alla smania distruttiva, poiché essa promette un senso di liberatoria pacificazione dal male: coltiviamo un desiderio di arrenderci a qualcosa di immensamente forte – la Morte -, dato che essa promette di essere la fine di ogni lotta, conflitto, pena.

È quel che accade a quei suicidi che, dopo lunghi tormenti depressivi, approssimandosi all’atto definitivo, appaiono finalmente sereni. Non è detto affatto, però, che essi, sopprimendosi, diano corso semplicemente a una fantasmatica vendetta contro il mondo; talvolta, al contrario, essi affermano anche una scelta soggettiva, personale, un’espressione ultima del proprio diritto a scegliere la propria esistenza, piuttosto che di subirne i rovesci.

Diverso è il caso, però, dell’attentatore della Manchester Arena, il quale ha, evidentemente, deciso di attuare la più ampia carneficina possibile tra una moltitudine di giovani innocenti e gioiosi, in forza di un’ideologia politico-religiosa che sfrutta e manipola la disperazione dei singoli, per dar corso alla più bieca distruttività.

Come questo problema riguardi da vicino non solo le più alte vette di una mistica dell’odio ma anche quelle del più sublime amore mistico, ce lo rammenta San Paolo (Tarso, 5-10 – Roma, 64-67), quando, nella Prima Lettera ai Filippesi, afferma «τὴν ἐπιϑυμίαν ἔχων εἰς τὸ ἀναλῦσαι καὶ σὺν Χριστῷ εἶναι», ovvero che egli prova il “desiderio di dissolversi e, in questo modo, fondersi con Cristo”. Si tratta di quel concetto che altri Padri della Chiesa, come il cartaginese Tertulliano (160 – 220), riprenderanno nella fatidica formula del “Cupio dissolvi”.

La storia della nostra cultura si è incaricata, per altro, di sviluppare altre connotazioni del concetto, come testimonia Il Vocabolario Treccani: «Col tempo però […]l motto è stato assunto a simbolo di aspirazione a una vita ascetica, di rinuncia alla propria personalità, e successivamente adattato anche ad accezioni e usi più laici e profani, esprimendo, a seconda dei casi, rifiuto dell’esistenza, desiderio di estenuazione, volontà masochistica di autodistruzione, e simili» [http://www.treccani.it/vocabolario/cupio-dissolvi/].

Questo significa che, nella nostra società materialistica e secolarizzata, è diventato quasi impossibile riconoscere la seduzione mistica esercitata dalla Morte (tranne nei sempre più rari casi in cui ci esaltiamo per l’espressione della violenza bellica compiuta dagli stati, o in loro nome). Ci è divenuto quasi incomprensibile, pertanto, che una voluttà di procurare irrimediabile sofferenza attecchisca in modo tanto rapido e radicale in alcuni individui o in gruppi.

A compensare tale andamento, mi torna in mente, però, il felicissimo esito artistico di uno dei più grandi scrittori del Novecento: il premio Nobel portoghese José Saramago (1922 – 2010). Saramago, fa diventare assoluta protagonista dello splendido e ironico romanzo Le intermittenze della morte (2005) la “Grande Falciatrice”, per poi compiere il miracolo di attrarla sul versante erotico della Vita, un luogo dell’Anima a lei, in precedenza, totalmente sconosciuto.

***

Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma in una scuola di specializzazione per psicoterapeuti, formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma e a Ischia. Ha fondato e dirige il webzine e il quadrimestrale internazionali “Animamediatica”.

Contatti

E-mail: francescofrigione62@gmail.it

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