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DAI VECCHI “FORNI DELLA SALUTE” AL PANE QUOTIDIANO IN CALO PANETTIERI IN ALLARME PER LE “SANE” DIETE DELLE NOSTRE DONNE

 

Molte delle nostre donne, fissate per mantenere e difendere la linea, a tavola si castigano  a bella posta, rifiutandosi di mangiare il pane, per altro gustoso, specie se lo si consuma accompagnando un buon cibo. Ma le donne ischitane e non solo, non si lasciano cadere in tentazione, e convinte, innalzano una insormontabile barriera  fra loro  e il pane  che giudicano pericoloso  nemico del proprio stato di forma da conservare con determinazione. Morale, quella più spicciola: ci perdono i panificatori che a giudicare dalle ultime stime  del prezioso e vitale  prodotto, registrano progressivamente  un sensibile cale nelle vendite. Ormai siamo prossimi alla biblica e pasquale moltiplicazione dei pani e dei…pesci. E si, perchè il pane da solo, è pur sempre il pane, soprattutto perché il pane non ha tempo, da Gesù fino alla notte dei tempi e da Gesù fino ai giorni d’oggi e per l’avvenire nei secoli, nei secoli e cosi sia.. Esso è quell’alimento di nutrizione quotidiana che ha accompagnato l’esistenza dell’uomo sin dalle sue origini, a seconda del suo sapersi organizzare.  Riferendoci al tema religioso, con il miracolo eucaristico, evocazione del racconto evangelico dell’Ultima Cena ed della  comparsa dei cesti pieni di pagnotte ad un affollatissimo incontro con Gesù sulle rive del fiume Giordano, il pane assunse un significato ancora più forte, diventando un alimento sacro, capace di mettere l’uomo in diretto contatto con Dio. ‘Dacci oggi il nostro pane quotidiano’ è un’invocazione che assume, nel Padre nostro, una fortissima carica emotiva e per così dire ‘ideologica’. Ma per non scendere troppo nel  “filosofico”, ricordiamo come in pratica gli antichi facevano uso del pane. Infatti per Omero e per tutti i Greci antichi, “mangiatori di pane” è sinonimo di “uomini”, ma già nel Poema di Gilgamesh, un testo sumerico del secondo millennio a. C., il processo di civilizzazione dell’uomo selvatico rappresentato da un personaggio di nome Enkidu, viene fatto coincidere con il momento in cui egli non si limita più a consumare cibi e bevande disponibili in natura, come le erbe selvatiche, l’acqua o il latte, ma comincia a mangiare pane e a bere birra, prodotti “artificiali” di cui viene a conoscenza grazie a una donna che gliene fa dono. La storia è piena zeppa di trattati e racconti in cui il pane è il protagonista ed abbraccia popoli e nazioni, culture e modi di vivere. Per cui, torniamo al nostro  tempo, ai luoghi in cui viviamo, al nostro habitat, partendo da non troppo lontano per riproporre la nostra cultura del pane nelle sue pratiche  domestiche di panificazione.  Un tempo, dagli anni ’20 in poi, ma anche prima, nelle  case di campagna e non solo dell’isola, dal Ciglio a Succhivo, da Campagnano al Vatoliere fino a tutte le altre zone dell’entroterra di Ischia, Barano, Serrara Fontana e Panza, quasi tutti possedevano un forno che veniva scaldato ogni 5 o sei   giorni e serviva a cuocere il pane della famiglia e per turno, a

 

 

 

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richiesta,  anche quello di  qualche vicino che ne era sprovvisto. Li chiamavano i “forni della salute”.  Sotto il forno vi era uno specie di ripostiglio dove si metteva anche  la chioccia a covare, o per tener anatre e conigli. L’isola ne era piena e non mancavano nei centri abitati vicino al mare. Il forno tradizionale e rustico era costruito a volta, rifinito  di mattoni tenuti col fango. La volta veniva detta anche “pala” e al suo centro aveva un’altezza di 45 cm. Il pavimento era costruito in modo che sul fondo risultasse leggermente più alto in modo da facilitare lo sfornare del pane. La botola di chiusura era in metallo. Mentre la donna di casa  era intenta a fare il pane, l’ uomo provvedeva a scaldare il forno bruciando di solito rovi, canne, viticci, buona legna e fascine. Poi la bocca del forno veniva chiusa con l’apposita botola sigillata tutt’attorno col fango. L’uomo addetto al forno sapeva bene quanto tempo occorreva per la cottura…più o meno un’ora. Quando toglieva la botola ecco che dal forno usciva quel caratteristico odore fragrante di buon pane che da tempo non si avverte più.  Il pane sfornato veniva lasciato raffreddare in un grande cesto o su di un tavolo, poi si metteva nella “martra” o in una cassapanca e in sacchi di tela chiusi al riparo dall’aria. Oggi quella vecchia usanza di fare il pane in casa è sopravvissuta solo in poche abitazioni dell’entroterra isolana rimaste rustiche col senso mai perduto della tradizione. L’evoluzione dell’isola d’Ischia e della sua gente ha radicalmente cambiato  il processo di produzione del pane passato per gradi alla fase industriale per soddisfare il largo consumo che se ne fa, tenendo conto soprattutto del fattore turistico che ha investito l’isola e del  suo programma di continua espansione delle strutture commerciali nel paese. I panificatori sull’isola sono oltre la quarantina attrezzati, chi con soli forni elettrici e chi con i forni elettrici e forni a legna, questi ultimi simili a quelli tradizionali con il fascino del tempo che li ha resi celebri. Non possiamo citarli tutti e decantarne le virtù per motivi di spazio. Ma di un panificatore in vece ne parliamo, per la sua notorietà conquistata negli anni. Lo fa al fian co Michele Lubrano nella sua rubrica “Il Punto”.

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   antoniolubrano1941@gmail.com

 

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