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LETTERE A UNO PSICANALISTA

di Francesco Frigione

Gentile Professore,

sono una donna che ama. Questa è la mia forza e la mia dannazione. Forza perché l’amore dà senso alla mia vita, pur nel dolore; dannazione perché soffro di non essere ricambiata per quello che ho profuso, senza riguardi e senza rispetto per me stessa.  Un uomo che ho adorato e idealizzato come mai altri, durante un rapporto di alcuni mesi e di grandissima intensità, una relazione fatta di alti meravigliosi e bassi per me incomprensibili, si è improvvisamente allontanato da me, con un odio violento e immotivato, dopo avermi prosciugato di sentimenti, di cure, di autostima e, persino, del poco denaro che avevo da parte.

Tutte le persone care intorno a me mi avevano messo in guardia da questa persona, ma io non ho voluto dar loro ascolto. Sono stata cieca e sorda. Inoltre, sapevo bene che le sue precedenti storie affettive si erano sempre concluse nel peggiore dei modi e dopo breve tempo. Ciò nonostante mi sono fatta abbagliare. E dire che sono una donna bella e corteggiata, desiderata da molti!

Oramai la storia è chiusa da diversi mesi e, come mi suggeriscono le amiche, dovrei finalmente “farmene una ragione” del suo non volermi più. Eppure, non ci riesco. Nei momenti più inattesi, anzi, mi capita di cadere in un pianto irrefrenabile, dirotto, e, magari, causato da un nonnulla. Basta a mettermi in questo stato di prostrazione assurda una canzone, un luogo visitato assieme a lui, una parola, un vago riferimento di idee, o il leggere uno di quei crudeli post che lui scrive a profusione su Facebook, come l’ultimo, in cui si dichiara felicemente innamorato di un’altra: “Adesso, sono finalmente felice, come mai lo sono stato prima! Mi rendo conto che tutto quello che ho vissuto non è stato che l’ombra di questa magica esperienza che la vita oggi mi regala con (il nome di lei)!”.

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Solo copiare questa frase mi spezza il cuore. Ma non sono solo triste: sento anche una rabbia infinita, che mi consuma, per come ho svalutato me stessa per una persona che non meritava nulla e un approfittatore, in tutti i sensi.

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Allo stesso tempo, quando penso a lui, provo ancora una tenerezza infinita e sono sicura che se lui mi schioccasse le dita, io non esiterei un secondo a seguirlo.

 ***

Gentile lettrice,

la sua vicenda mi fa ricordare di un “gioiellino” letterario del finissimo scrittore magiaro Sàndor Márai (”L’eredità di Eszter”, Adelphi, Milano, 1998), nel quale una donna deliziosa e buona, già illusa e abbandonata in passato da un uomo borioso, vacuo, subdolo e sfruttatore, si lascia circuire una seconda volta, a distanza di anni, consapevole che sarà ancora depredata e lasciata definitivamente in miseria e solitudine. Scorrendo le pagine, il lettore spera che quell’anima delicata e prodiga si ribelli finalmente al grossolano giogo psicologico a cui il seduttore la sottomette. Eppure, con la sua consueta estrema mitezza, la donna accetta che le sia procurato un danno letale. Ci si chiede, allora, se a contraddistinguerla  sia una forma di generosità paradossale, simile alla santità esemplare e illuminante di un maestro Zen, o se si tratti della sconfitta esistenziale procurata da una aggressività difensiva pericolosamente inibita. Forse, però, ci è opportuno intendere l’abbaglio della protagonista come il desiderio di dare a qualcun altro la possibilità di vivere una vita che non si ha la forza e il coraggio di affrontare personalmente: la libertà viene regalata in modo sacrificale.

È quello anche il senso del gesto compiuto da Titta, il protagonista del film di Paolo Sorrentino “Le conseguenze dell’amore” (2004), che si consegna al silenzio e alla morte inflittagli dai mafiosi, di cui era un “colletto bianco”, pur di beneficare le persone alle quali spera di donare, con il denaro sottratto alla malavita, una esistenza migliore della sua.

Se così stessero le cose, però, lei non proverebbe tanta rabbia, né tanto dolore. No, lei ha, piuttosto, proiettato le più nobili qualità che tiene in serbo in sé su di un essere, in buona sostanza, mediocre, meschino e forse anche disturbato psichicamente. A questo punto, le diventa necessario riflettere su  cosa di sé stessa scorge attraverso l’immagine dell’altro, aspetti che ha ritrovato in lui, in realtà, in una forma bassa, inferiore, scarsamente sviluppata dal punto di vista della coscienza. Quel qualcosa – che è tutt’ora un contenuto inconscio della sua anima – va, infatti, recuperato al processo di individuazione, che la impulsa alla realizzazione del suo pieno potenziale psichico, etico e spirituale (Jung, mutuando il termine da Aristotele, definiva la tendenza dell’individuo ad assecondare lo scopo ultimo della propria personalità “entelechia”,). La spontanea spinta individuativa fa sì, d’altronde, che noi tutti incontriamo, ineluttabilmente, nel mondo – e ci leghiamo ad essi – proprio coloro che meglio simbolizzano quelle parti sottratte al nostro essere cosciente, facendole cozzare dolorosamente con esso.

Quanto alla condotta dell’uomo che lei odia e ama a me viene da pensare ancora una volta a un esempio letterario, “La lentezza” (1995, Adelphi, Milano), dello scrittore ceco Milan Kundera. Tra le varie cose, vi si descrive, minuziosamente, l’andamento di un abbandono perpetrato nel modo più crudele e volgare da Immacolata nei confronti  del suo consueto amante, a cui il racconto non concede neppure il diritto al nome di battesimo (viene descritto, di fatti, semplicemente come “l’operatore”). Lei è una giornalista televisiva appena rifiutata da Berck, un conoscente di gioventù (il quale, allora, era stato, a sua volta, respinto da lei) e che è divenuto un intellettuale tanto noto al pubblico quanto fatuo e vanesio. La fragilità narcisistica impedisce a Immacolata di accettare il dolore del rifiuto, così come la stoltezza della sua pretesa di essere amata a tutti i costi e la meschinità cafona dello stesso Berck. Tutto, dunque, viene spostato perfidamente su colui che da lei dipende sul piano degli affetti e che la adora come un cagnolino: l’operatore. Lo sprezzante rifiuto, l’umiliazione dell’infantile grandiosità  narcisistica di Immacolata vengono trasferite, allora, sull’unico essere capace di provare emozioni e sentimenti di amore. L’uomo, a sua volta, è legato alla donna da un rapporto di masochismo morale, di cui il disprezzo è il piatto forte. Ragion per cui abbraccerà senza redenzione la pena di cui l’amata non è in grado di farsi carico personalmente. Anzi, proprio questa incapacità infantile di Immacolata sembra essere il tratto che più oscuramente avviluppa lui alle spire di lei.

Credo, dunque, mia cara lettrice, che lei debba iniziare a lavorare assai seriamente sui “fattori interni” della personalità, ovvero indagare quali parti del suo abbiano patito forti pene nel tempo dell’infanzia, infragilendosi, per divenire, nell’ombra dell’inconsapevolezza, tiranniche, pretenziose e spietate nei confronti di un Io generoso e amabile. Queste parti vanno recuperate nel loro potenziale benefico, creativo, ma mai lasciate agire impunemente ai danni dell’Io e della Coscienza. Fintantoché, purtroppo, durerà la proiezione inconscia su figure del mondo esterno, infatti, le rischierà di prestarsi a crudeli vessazioni e un’ingiuste mortificazioni.

***

Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma in una scuola di specializzazione per psicoterapeuti, formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma e a Ischia. Ha fondato e dirige il webzine e il quadrimestrale internazionali “Animamediatica”.

Contatti

E-mail: francescofrigione62@gmail.it

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