Gianluca Castagna | Lacco Ameno – Probabilmente tutta l’anima e l’essenza della vicenda amara dei fratelli Sanfilippo è già dentro il bel libro di Giuseppe d’Ascia “Storia dell’Isola d’Ischia” e, più precisamente, nell’implacabile j’accuse rivolto agli “Ischioti”, colpevoli di non aver onorato il contratto con i tre “Liparoti” che, nel 1856, pur avevano salvato i vigneti isolani dall’assedio di un fatale parassita con l’innovativo metodo della solforazione.
I ricchi possidenti isolani, e l’intera comunità, preferirono affidare alla devozione religiosa, ai botti e alle processioni, le speranze (e gli esiti) della guarigione per le viti avvizzite, quindi la salvezza di un’economia fiorentissima. I tre dovettero lottare (invano) per “la pattuita somma”, vittime di una comunità priva di un vero orizzonte morale, o di un’etica della responsabilità che sapesse farsi carico delle scelte fatte e delle azioni compiute.
Non a caso, le parole gravide d’indignazione del d’Ascia arrivano puntuali sul palco nel prefinale dello spettacolo “Di vino, di mare e di zolfo”, andato in scena, con la drammaturgia e la regia di Salvatore Ronga, mercoledì scorso nei giardini di Villa Arbusto a Lacco Ameno, in chiusura del cartellone “Metamorphosis”.
La performance riannoda, con andamento vertiginoso, fluido e trascinante, cause ed effetti morali di buona parte della nostra storia. Non tanto per far tornare i conti (la vicenda è datata metà Ottocento, siamo fuori tempo massimo), ma per porre un interrogativo a tutti i personaggi del racconto, e a noi che li osserviamo amarsi, partire, litigare, ubriacarsi e imprecare al cielo. Una sfida alla loro (e alla nostra) innocenza maliziosa e alle identità molteplici di madri, figli, amici, emigranti e viaggiatori.
Nel frattempo il vino scorre a fiumi sotto e sopra la terra. La linfa vitale, l’arteria chiave, il sangue, forse la reliquia di un corpo scomparso (quasi) per sempre. “Si nun fosse p”o fieto, l’Iscaiuolo se lavarrìa pure ‘a faccia, c”o vino”. Alla stregua di una danza primitiva, i movimenti del coro si sincronizzano con i ritmi della natura, nella logica di un rapporto fondato sullo scambio e la divisione dei compiti. E’ la festa che chiude la giornata. Quando, dopo aver preparato la terra (spazio fertile, solare e durissimo che riassume la tradizione, la speranza e la vita), uomini e donne con la schiena spezzata vanno a dormire, sapendo che ora spetta alla natura fare il suo. E’ l’eterno ciclo che appiana le vicende sconnesse e affannate degli individui. Vivi anche nello squasso degli elementi. Lo sanno bene Ciro Sasso, Luigi Trani, Antonietta Di Meglio, Annunziata Sasso e Giovanni Patalano, figure che irrompono sullo schermo (quasi) immuni da quella modernità che ha frantumato un piccolo mondo antico devoto a ritmi secolari. Raccontano di grandinate apocalittiche, calli sulla schiena che nemmeno un coltello, interminabili odissee per vendere il vino e figuriamoci saper nuotare. Chi l’ha mai visto il mare? Eppure anche le calamità naturali, o sacrifici fisici oggi impensabili, vengono ricordati con umanissima accettazione, o con l’astuzia di chi prende dalla vita quel che viene e deve tirarci fuori il massimo.
Non c’è nulla di più favoloso delle forze della natura, scrivono. Ma non si accorgono quando nel Giardino dell’Eden arriva un serpente velenoso che manda tutto in malora. E allora hai voglia a rovesciare la bottiglia: non esce più un goccio. Niente. Al giovanotto di belle speranze non resta che partire. Emigrare. Lanciare il sasso e ufficializzare la cesura netta tra due mondi. “Vutato ‘o Castiello, vutato ‘o cappiello”. Cosa ci sia al di là del mare sconfinato, che tutto sembra accogliere con un sinistro sorriso, è qualcosa di eccitante e pericoloso da immaginare: l’energia originaria, una nuova terra, traiettorie imprevedibili a cui arrendersi.
Noi saremo testimoni. Ma ne saremo davvero capaci? Ne avremo davvero voglia?
Personaggi meschini, cialtroni, folli, generosi, cinici, coraggiosi, disperati, imbroglioni. Affamati di vita e affamati di morte. (Co)stretti dentro un ring di fusione panica a richiamare per tutti (spettatori in primis) la necessità di frequentare (sempre più) la memoria e di non considerare mai risarcito il debito con il nostro passato.
(photo: Lucia De Luise)