LE OPINIONI

IL COMMENTO Basta una firma, poi puoi pure morire

Solo un anno fa la comunità isolana è rimasta affranta dalla storia di Sara, morta di parto, e molto probabilmente si poteva evitare se solo Sara avesse avuto qualcuno accanto, e se fosse stata sorvegliata adeguatamente. Ma i se e i ma, servono a ben poco, perché resta una bimba che sta crescendo senza una mamma e una famiglia che non ha più Sara. Da pochi giorni, su tutti i giornali e telegiornali abbiamo appreso l’atroce notizia della mamma che ha soffocato il suo bambino mentre lo allattava, perché si è addormentata. Atroce, perché anche in questo caso, si poteva evitare e un giorno che doveva essere il più bello, si è tinto a lutto. Una similitudine, Sara è stata abbracciata dal gelo della solitudine nel suo letto, il neonato è stato abbracciato dal calore della sua mamma, ma la stanchezza, dopo diciassette ore di travaglio, lo ha trasformato in gelo, quello della morte del piccolo angelo. Ha chiesto aiuto, la mamma del neonato, ha capito che non aveva la forza sufficiente per il suo bambino, aveva chiesto di tenerlo un po’ al nido per poter dormire qualche ora e recuperare un po’ di energia, quella che serve ad una mamma. E invece ti fanno firmare, e così che si lavano la coscienza!

Si chiama “rooming in” la pratica – promossa da ginecologi e pediatri e condivisa anche dall’Oms e dall’Unicef – che si è via via affermata nei reparti degli ospedali e che consente alle neomamme di tenere da subito dopo il parto i propri neonati con sé in stanza, 24 ore su 24. Il senso è azzerare il distacco tra madre e figlio (che si consuma, invece, quando il piccolo viene preso e riportato alla nursery), permettendo alla fase delicatissima dell’allattamento di decollare immediatamente, così da stimolare l’arrivo della montata lattea e abituare il piccolo ad attaccarsi al seno. Se non fosse che non tutte le donne sono uguali, così come non lo sono tutte le gravidanze e i parti, e nemmeno tutte le montate lattee: non a caso nelle prime ore di maternità la presenza della figura dell’ostetrica accanto alla partoriente è fondamentale, oltre a quella del papà, e non tutte le donne accettano il “rooming in”. Si può arrivare esauste, al momento tanto atteso del parto. Si può avere un travaglio lunghissimo, e devastante dal punto di vista fisico e psicologico. Ecco che invece esplode in questi giorni la notizia tragica di quella notte tra il 7 e l’8 gennaio che un neonato di tre giorni è morto all’ospedale Sandro Pertini di Roma, soffocato dalla madre che lo stava allattando. Era stremata ed è stata lasciata sola, ha dichiarato il padre del bimbo ai giornali, aggiungendo: «Confidiamo nella giustizia». Un padre e una madre che piangono un figlio morto, oppure una moglie, una compagna, hanno bisogno di sapere se la condotta del personale medico a cui si sono affidati è stata negligente o anche colpevole di incuranza. Forse di fronte a una tragedia di questa portata e a un dolore così inconcepibile l’unica cosa che dovremmo fare è tacere e stringere, per quello che vale, questa madre in un abbraccio collettivo, sapendo che non può lenire la sua pena. O, forse, dovremmo smettere di tacere. Dovremmo dire che le madri nel postpartum sono, quasi sempre, sole.

Con compagni, compagne, mariti, mogli, genitori, congiunti e congiunte che non possono star loro accanto se non per poche, pochissime ore, perché le restrizioni pandemiche, ci sono ancora e non consentono ai familiari di stare accanto ai propri cari. Penso all’enorme senso di colpa con cui vivrà questa mamma per il resto della sua vita, la colpa di essersi addormentata, mentre aveva bisogno di chi l’aiutasse. E il grido di dolore, quello di una mamma che ha appena scoperto che il suo bambino di tre giorni non respira più, rimbomba fino a qui, e ci riporta a Sara, scivolata dal sonno alla morte, per essere stata lasciata sola, al suo atroce destino.

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