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L’uomo e la terra, macerie ad Amatrice

Gentile Professore,

sono un ingegnerie civile. Mi è capitato di leggere in più occasioni gli articoli che lei scrive per Il Golfo e ho avuto il piacere di notare che essi non toccano soltanto temi di consueto appannaggio della psicologia, materia nella quale sono poco ferrato, ma anche questioni sociali, politiche e culturali che molto contano per me, in qualità di uomo e di professionista.

Il tragico terremoto che ha travolto pochi giorni or sono il Reatino e le Marche, uccidendo trecento persone e provocando migliaia di sfollati, accanto al dolore e allo strazio dei parenti delle vittime, sta producendo il consueto corteo di feroci polemiche e inchieste della magistratura che, tipicamente, si mette in moto dopo questo genere di catastrofi. Si va alla ricerca dei potenziali colpevoli e li si cerca, innanzitutto, tra i direttori dei lavori e tra gli imprenditori dell’edilizia. Certo, non nego che ci siano delle “mele marce” in questo campo, le quali, per volontà di lucro, o semplicemente per timore di non ricevere più incarichi e commesse, possano essersi comportate in maniera disonesta; eppure, questa legittima, ma affannosa, ricerca di singoli colpevoli, ampiamente stimolata o amplificata dai media, mi sembra offuscare il problema centrale, rappresentato dal “sistema” in cui tutti gli operatori dell’edilizia sono costretti a lavorare in Italia: poco denaro, gare al ribasso, amministratori e funzionari spesso corrotti. E siccome si tratta di “sistema” e non di casi isolati, diventa arduo per il singolo operatore denunciare il concussore, a meno che non voglia suicidarsi professionalmente. I malviventi che si annidano negli uffici e nella sale consiliari sono ampiamente favoriti da una giungla di norme e vagli ripetuti, dai quali disincagliarsi è difficile senza a ungere a destra e a manca. Ma quand’anche non s’incorra in questo tipo di problemi resta inalterato quello di una burocrazia elefantiaca e sconnessa, alla quale, malgrado tutti i proclami dei politici di turno, nessuno di essi ha mai ha avuto la forza né la voglia di sottrarre spazio e potere.

Spero, dunque, che la terra e le pietre che hanno seppellito quei poveri morti e sopravvissuti di Amatrice non ricadano una seconda volta su di loro e che questo nostro Paese, troppo spesso fanfarone e inerte, colga l’occasione per non rendere la loro sofferenza inutile.

 

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L’UOMO E LA TERRA

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Macerie ad Amatrice

 

Gentile lettore,

il tema che lei mette sul tappeto è nello stesso tempo attualissimo e annoso. Attualissimo perché prende spunto dalla recente tragedia che si è abbattuta sull’Alto Lazio e la zona picena delle Marche, annoso perché investe in pieno la mancata trasformazione del nostro Paese in una realtà più efficiente e più consapevole dei propri mali.

Riguardo a questo tema della consapevolezza sento di dover dare una spiegazione, onde evitare facili fraintendimenti. La pratica clinica in psicologia ci insegna che conoscere cognitivamente i termini di un problema può non corrispondere affatto all’aver raggiunto una reale consapevolezza in merito ad esso. Spesso le persone, poste di fronte a un’insanabile contraddizione evidente nel loro comportamento, ripetono al terapeuta: “Lo so … lo so”. Ma cosa affettivamente sanno? Lo scopriamo solo dalle conseguenze che produce quella visione delle cose nella loro esistenza: di fatti, una vera “presa di coscienza” è tale se spinge il soggetto a modificare lo status quo.

Di fatti, i contenuti provenienti dall’Inconscio irrompono continuamente in “superficie”, offrendo così la chance di cambiamenti all’individuo, ma senza una attività dell’Io di questi, posta al servizio della Coscienza, quell’occasione viene ben presto riassorbita nell’Inconscio che l’ha originata. In tal modo essa resta una aleatoria potenzialità sottratta al concreto farsi della storia.

Analogo è il processo che concerne il rapporto tra la Coscienza di gruppi e comunità e quello che Jacob Levi Moreno definiva il “Co-inconscio” dei loro componenti. Da tempo il popolo italiano sembra conoscere i suoi mali, ma, in effetti, è come se questa consapevolezza cognitiva non riuscisse ad accompagnarsi a un concreto mutamento “affettivo” ed etico. Il nostro Paese sembra essersi legato alla sua inconscia identità di “bello e incompiuto”; anzi, sempre più appare impelagato in viete carenze, alle quali, come i materiali portati a valle da un fiume in piena, si aggiungono nuove questioni irrisolte.

Sono pienamente d’accordo con lei, pertanto, nel giudicare la questione in gioco soprattutto “sistemica”, frutto di un concorrere combinato di cedimenti etici e oggettive difficoltà sociali, economiche e culturali. I politici che dovrebbero farsi carico di scelte sovente impopolari, ma lungimiranti, e che evitano di farlo, d’altronde, sono l’espressione di un elettorato che sembra aver accettato, per tradizione, la via storta in luogo di quella dritta, come temendo di poter essere spazzata via nel momento in cui ambisce al riconoscimento di diritti, in cambio del rispetto di doveri. Insomma, alla giustizia sociale.

Il risultato è un intrico indistinguibile di responsabilità e colpe, che ci rende incapaci di proteggere la nostra terra meravigliosa e di proteggerci da essa quando ci si volge contro, affacciandosi con il suo aspetto terrifico, divorante, distruttivo.

Da questa situazione se ne esce soltanto sfoltendo le pastoie burocratiche; creando centraline di controllo degli appalti; avviando una politica di cura stabile del territorio e orientata al lungo termine; lavorando a politiche intelligenti, che prendano spunto da chi ha saputo regolarsi meglio di noi.

Psicologicamente parlando, dobbiamo uscire dalla condizione di meri “figli” di questa terra, nella convinzione che sia essa a doverci provvedere di tutti i beni come una cornucopia, fingendo di ignorare che può, da un istante all’altro, mostrare il suo volto arcigno e devastante. Noi italiani abbiamo bisogno di affiancare alla prima posizione psicologica (dipendente e infantile) una diversa e complementare “posizione archetipica”, quella dell’adulto maturo, quella, cioè, della madre e del padre che si prendono a loro volta cura della propria madre-patria.

***

Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma in una scuola di specializzazione per psicoterapeuti, formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma e a Ischia. Ha fondato e dirige il webzine e il quadrimestrale internazionali “Animamediatica”.

Contatti

E-mail: francescofrigione62@gmail.it

 

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