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La storia: gli ultimi miracoli di San Giovan Giuseppe

Di Michele Lubrano

Un proverbio molto popolare, vecchio quanto la barba di Matusalemme per le molte volte ripetuto, ammonisce che “tra il dire e il fare ci sta di mezzo il mare”. E’ proverbio di sapienza antica sempre vera. Ad esempio, nei riguardi della santità, può essere molto facile a chiunque dire di voler diventare santo, ma il superare le concrete difficoltà e le lotte inevitabili per sacrificarsi, è stato fatto solo dai Santi veri campioni, che hanno sempre saputo spuntarla con le loro virtù.Fulgido esempio ne è appunto S. Giovan Giuseppe della Croce, umile e grande figlio di S. Francesco d’Assisi e nostro caro Santo concittadino Patrono e Protettore dell’isola d’Ischia. Per soccorrere le famiglie povere, di cui si era fatto un elenco, non si vergognò di stendere la mano. Quando non bastò il denaro, per sovvenire a gravi necessità, intervenne con il miracolo. Non minore carità Fra G. Giuseppe nutrì per i malati che visitava e consolava fino a prendere su di sé i loro dolori. Dio gli mostrò quanto gradisse il suo zelo non permettendo talora che la pioggia lo bagnasse. E’ impossibile enumerare tutti i ciechi, gli zoppi, i cancerosi che guarì con una preghiera o un segno di croce. La marchesa Spada aveva perso un figlio di 4 anni a causa del vaiolo. Lo amava tanto che pregò il Santo di restituirglielo vivo, benché le avesse predetto che, crescendo, sarebbe diventato la vergogna della famiglia. Fra G. Giuseppe ordinò ai domestici di somministrargli un cucchiaino di manna di San Nicola, ma essi non riuscirono ad aprirgli la bocca. Il santo allora pregò e poi disse al defunto: “Gennarino, per santa obbedienza, apri la bocca e prendi la manna”. Il morticino risuscitò, crebbe, divenne un impenitente giocatore finì in prigione e in esilio, morì mendico, dando tuttavia segni di pentimento, come era stato predetto.  Fra G. Giuseppe dal benefico influsso della sua protesta taumaturgica non escluse se stesso. Un giorno incontrò per Napoli una salmeria di muli. Nell’atto di scansarli, il corpo non gli ubbidì con agilità ed egli cadde sotto lo zoccolo di uno di quegli animali. Furono subito avvertiti i suoi confratelli dell’incidente che gli era occorso e pregati di mandare una barca al Molo Piccolo, dove si pensava di trasportarlo. Il Santo, non volendo essere preso in braccio, si segnò il piede contuso e, come se nulla fosse stato, riprese il cammino. Un’altra volta era andato in duomo a baciare l’ampolla contenente il sangue liquefatto di San Gennaro. Per la grande folla che lo urtava da ogni parte, gli cadde di mano il bastone e non gli fu più possibile riprenderlo. Trasportato dalla ressa sotto il pulpito, mormorò: “San Gennaro mio, io non voglio andare in carrozza, non voglio andare in calesse, non voglio andare in sedia all’ospizio di Ghiaia, ma senza la mazza come farò?”. Non aveva ancora terminato l’orazione che vide il bastone venire verso di sé volando sulle teste della folla trasecolata.

 

 

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