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Brexit, parlano gli ischitani che vivono e lavorano in UK

Gianluca Castagna | Ischia – E’ un periodo denso di incertezze quello che stanno vivendo i cittadini europei che risiedono, studiano o lavorano nel Regno Unito. “Firms must list foreign workers”, le aziende dovranno fare liste dei lavoratori stranieri. Occorre schedarli, in altri termini.
Era questa la proposta shock della ministra degli Interni britannica Amber Rudd che, durante il congresso dei Partito Conservatore, aveva anche precisato: «Ci sono troppi lavoratori stranieri in Gran Bretagna». Aggiungendo subito dopo che sono troppi anche gli studenti stranieri.
«Gli uni e gli altri tolgono posti, spazio e risorse ai cittadini britannici».
Siamo al tramonto del dinamico e accogliente mercato inglese e all’alba di un nuovo conservatorismo sociale? In realtà, già David Cameron, primo ministro britannico fino al luglio scorso, voleva ridurre il numero dei lavoratori dall’estero a 100mila unità l’anno. Non ci riuscì, mentre Theresa May, nuovo leader del Tories, ci proverà con misure più drastiche nel dopo Brexit.
Primo obiettivo è il controllo dell’immigrazione, anche a costo di sacrificare l’accesso al mercato unico europeo. Tanto più che nell’ultimo anno, in Gran Bretagna, i lavoratori sono aumentati di oltre 200 mila individui. Tra questi, il timore è che in un futuro nemmeno così remoto la Brexit possa ridurre o negare loro l’accesso al mondo del lavoro. E, di conseguenza, il diritto a rimanere nel paese.
Perché se è vero che sul piano di “svergognare” le imprese che non assumono abbastanza inglese c’è stata una marcia indietro, i lavoratori stranieri restano il tema del momento a Londra.

Foto secondariaIn generale, in tutto il Regno Unito, le statistiche parlano di 3.4 milioni di lavoratori stranieri, circa il 10% dell’intera forza lavoro. Di questi circa 2.2 milioni sono uomini e donne che provengono da paesi dell’Unione Europea, mentre le stime sui lavoratori italiani variano da 200 o 500 mila a seconda che si tratti di cittadini iscritti all’anagrafe dei residenti all’estero.
La proposta della battagliera ministra dell’Interno di costringere le aziende a rendere pubbliche le nazionalità dei propri dipendenti, a compilare quindi delle liste che assomigliano a odiose liste di proscrizione, aveva ,mandato in fibrillazione le stesse imprese che vorrebbero mantenere un sistema di reclutamento aperto, basato sulle capacità e non sul passaporto.
Che ne pensano invece i lavoratori italiani sul suolo britannico? E’ vero che la vispa Theresa ha più volte rassicurato che i diritti dei cittadini comunitari già residenti in Gran Bretagna (compresi centinaia di migliaia di connazionali) saranno tutelati. Questo non vuol dire che, concluso il cammino della Brexit, criteri assai più severi non possano applicarsi anche a lavoratori spagnoli, francesi, tedeschi e italiani. Compresi i tanti ischitani che lavorano – anche da molti anni – nel Regno Unito e che rischiano di essere usati “tatticamente” come merce di scambio al tavolo della trattativa fra governo britannico e Unione Europea sui termini della Brexit.
Il Golfo ha raggiunto qualcuno di loro per sentire impressioni, commenti o timori.

Antonio Bernasconi (foto terza)«Credo che le proposte della signora Amber Rudd siano state affermazioni in puro stile Salvini», osserva Antonio Bernasconi, tornato in Inghilterra da pochissimo dopo quasi un decennio, dal 1990 al 1999, passato in Gran Bretagna. «Frasi di circostanza, che servono ad attirare un po’ l’attenzione su di lei che oggi ricopre il ruolo che fu di Theresa May prima di diventare Primo Ministro. In Inghilterra i businessmen non la pensano come lei. Non tutti, almeno. Anzi, il mio datore di lavoro, che opera nel settore della ristorazione, preferisce personale non inglese perché secondo lui, per gli inglesi, lavorare nella ristorazione rappresenta un lavoro di ripiego. Magari preferiscono un altro tipo di percorso professionale, mentre gli italiani sono molto più tagliati per questo settore e fanno carriera meglio di loro. Naturalmente non mi riferisco solo a ristoranti italiani: io stesso, dopo molti anni a Ischia e una recente, bellissima parentesi a Saint Barth, nei Caraibi, sono tornato in Gran Bretagna, a Southend-on-Sea, nell’Essex, dove farò il Managing Director in un ristorante turco, il “Baboush, che aprirà i battenti a novembre».

Nadia Buono (foto quarta)Per Nadia Buono, trasferitasi a Londra tre anni fa e oggi capo-estetista nella Spa “Cowshed” «Non è ancora cambiato nulla. Com’è noto, i londinesi non sono felici della Brexit. Quando ho letto i risultati del referendum, ero con un inglese e siamo rimasti entrambi scioccati e dispiaciuti. Lui un po’ di più, perché si vergognava. Più o meno come mi vergognavo io quando qui si parlava di Berlusconi. Erano tutti molto tristi e hanno cominciato a trattarmi meglio. Non che prima mi trattassero male, ma ci hanno tenuto più volte a farmi sapere che loro si dissociavano da questa decisione. Non ho conosciuto nessuno che avesse votato a favore, e nessuno si spiega come sia successo. L’attrice Helena Bonham Carter è una mia cliente. La adoro. Un giorno mi ha detto: mi vergogno di essere inglese. Poi ha aggiunto “Ah no, ma io sono spagnola, francese, austriaca, italiana…tutto tranne che inglese, sono immigrata anch’io! Non preoccuparti, qui sei la benvenuta”».
E i vertici dell’azienda? «Il capo – continua Nadia – ha mandato una email per rassicurarci che nulla sarebbe cambiato. Anche se nessuno, al momento, sa cosa succederà in futuro. Quello di cui tutti sono consapevoli è che noi italiani non rubiamo il lavoro a nessuno: gli inglesi hanno voglia solo di lavorare nella finanza. Poi, certamente , un po’ di preoccupazione c’è. Anche da parte loro. I londinesi temono tempi duri, quando potrebbero dover abbandonare le loro case di vacanza in Spagna e Francia, e dovranno iniziare a servire ai tavoli se vorranno continuare a mangiare in ristoranti e fast food».

Gianluca Mennella (foto quinta)«Le dichiarazioni della Rudd mi hanno amareggiato – commenta invece Gianluca Mennella – mi pare evidente che vogliano tenerci in ostaggio e usarci come oggetto di ricatto in fase di contrattazione per l’uscita dall’Europa». Gianluca vive e lavora a Londra da ormai 16 anni, in uno dei club più esclusivi della capitale britannica, l’ “Annabel’s” a Mayfair, meta privilegiata del jet set internazionale e non solo british. Con lui altri due ischitani: Simone Scotto e Cristiano Monti.
«In giro c’è un po’ di preoccupazione – continua Mennella – non solo nella comunità degli italiani. Londra è una realtà cosmopolita, arrivano qui da ogni parte del mondo, i timori sono intergenerazionali. Se le cose dovessero davvero cambiare, i colleghi più giovani pensano di andare in Australia o in Germania. Quelli più grandi già considerano di tornare in Italia. Anche se qui i vantaggi continuano a essere molti: la busta paga è molto più alta, la burocrazia è minore, contano soprattutto le abilità individuali. Se sei creativo, hai spirito di gruppo e sai vendere, qui sei apprezzato e ti viene riconosciuto. Conta il merito, fai carriera per quello che vali. In Italia è ancora tutto legato alle “conoscenze”, alla raccomandazione». La competizione con i lavoratori britannici? «Agli inglesi non piace lavorare nel nostro campo. Sono considerati lavori faticosi, quindi svolti prevalentemente dagli stranieri. Le parole della Rudd mi hanno francamente sorpreso».

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Perfino il collega conservatore Neil Carmichael, presidente della commissione educazione della Camera, ha criticato la ministra. «Le persone che vengono in Gran Bretagna per lavorare sodo, pagare le tasse e dare un contributo alla nostra società dovrebbero essere lodati, non rimproverati – ha dichiarato Carmichael – Questo genere di politiche controverse non ha posto nella Gran Bretagna del XXI secolo».
Del resto, anche prima del dietrofront della Rudd sulle liste delle aziende “colpevoli” di assumere gli stranieri, il ministero degli Interni ha fatto un po’ di conti che hanno rasserenato gli animi. Pare che almeno l’80% dei residenti europei si trovi in Gran Bretagna da più di cinque anni, il che, in base alle leggi in vigore, già consente loro di richiedere una “permanent residence card”, permesso di residenza a tempo indeterminato. In pratica a vita, se lo desiderano.
Intanto, a ulteriore rassicurazione dopo il dietro front, è arrivata anche la dichiarazione della ministra dell’Istruzione, Justine Greening, la quale ha precisato che la proposta della Rudd – denunciata come discriminatoria da più parti – sarà sostituita da una richiesta di informazioni riservate da parte del governo sui vuoti occupazionali.
Nazionalisti con understatement, please. Niente clamori, siamo inglesi.

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