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Emilio D’Anna: «La criminalità si combatte con il lavoro»

Lacco Ameno  Il 12 febbraio 1993 Vincenzo D’Anna, titolare di una piccola impresa edile, viene ucciso nei pressi di un cantiere per essersi opposto al racket della camorra. Suo figlio Emilio è uno dei tanti familiari delle vittime innocenti delle mafie.
Come ha conosciuto Libera?
Dopo un anno dalla morte di mio padre ho cominciato a frequentare questa associazione, nata da poco, in un piccolo presidio ricavato nella sede della CGIL a Piazza Garibaldi, a Napoli. Col tempo sono arrivati altri familiari delle vittime, l’associazione è cresciuta, il referente Geppino Fiorenza ci ha molto aiutata a parlare delle nostri drammi.
C’è chi ritiene che questo Paese non meriti chi sacrifica la propria vita nella lotta contro le mafie e la criminalità organizzata. Com’è possibile dare un senso alla sofferenza, alla solitudine, ai tentativi di delegittimazione e alla mancanza di verità processuali? Dopo tanti anni è riuscito a riconciliarsi con la società?
Ho dovuto affrontare tutte le difficoltà che la burocrazia e la lentezza dei processi producono per arrivare alla verità. Siamo arrivati in Cassazione, perché chi ha ucciso mio padre aveva la possibilità di difendersi e fino alla fine ha cercato di sottrarsi al giudizio e alla pena. Oggi, a differenza del passato, ci sono molte più leggi che aiutano i familiari delle vittime della criminalità. Non basta, lo Stato deve fare di più. Quello che manca è il lavoro, il grosso dramma che genera devianza, illegalità, depressione e criminalità. Anche la scuola, per la sua funzione educativa, è importantissima. La società deve provare a funzionare in tutte le sue componenti: sanità, istruzione, giustizia, casa. Se c’è un punto debole, le mafie s’inseriscono immediatamente.
Com’è cambiato, in venti anni, il mondo del racket e delle estorsioni che portarono all’omicidio di suo padre?
Le persone continuano ad avere paura. Allo stesso tempo sono nate sul territorio molte associazioni antiracket che aiutano chi vuole denunciare. E’ importante, perché in tanti sono abbandonati a se stessi, non hanno supporti psicologici che li aiutino a respingere l’assedio della delinquenza.
Lei oggi vive a Lacco Ameno.
Dopo aver denunciato gli assassini di mio padre, ho avuto paura di ritorsioni e mi sono trasferito sull’isola. Mia moglie è di Casamicciola e insieme abbiamo deciso di vivere qui con i nostri figli. Mio fratello è rimasto a Napoli. Come mia madre, che continua ad abitare nella stessa zona dove mio padre è stato ammazzato. Non ha mollato: ha 86 anni e il coraggio di una leonessa.
L’esito del processo?
Gli esecutori materiali non sono mai identificati. Le persone che hanno visto hanno taciuto. Poiché mio padre mi riferiva quello che stava accadendo da tempo, il mandante è stato condannato e ha passato otto anni in galera.
L’ultimo ricordo di suo padre.
Dopo essere stato colpito, papà sapeva che non c’era più niente da fare. Eppure, durante il tragitto in ambulanza verso l’ospedale, chiese espressamente a mio fratello una sola cosa: «Paga gli operai».
(gia.ca)

 

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