LE OPINIONI

Finanziamenti per progetti: buttiamo l’acqua sporca ma senza il bambino.

La riflessione di Lello Montuori sui finanziamenti per progetti, ripresa anche da Graziano Petrucci e da Peppino Mazzella che ne hanno allargato gli orizzonti di analisi, merita attenzione e schietto confronto. Normalmente a Ischia c’è la tendenza a cloroformizzare ed ovattare qualunque provocazione politica e culturale intelligente. In questo caso sarebbe veramente un peccato. Non starò qui a riassumere la storia del passaggio dalla finanza derivata al modello a struttura variabile. Per chi fosse interessato ad un approfondimento di studio, segnalo il saggio di Carlo Garbarino, professore di diritto tributario presso la Bocconi di Milano, che ha fatto un’analisi approfondita del federalismo tributario dagli anni 80 in poi, in cui si affermò il principio di “sussidiarietà”, secondo il quale deve occuparsi della vita dei cittadini l’ente ad essi più vicino. E segnalo anche un libricino di Enzo Mazzella, tratto da un intervento che lui fece al Convegno Nazionale Anci del 1977 a Viareggio, dal titolo: “Il potere autonomo impositivo e la partecipazione dei Comuni alla gestione del processo tributario”.

Dal combinato disposto della lettura dei due testi si può apprendere il percorso diacronico del sistema tributario italiano, con particolare riguardo agli enti locali. Con Lello, che accoppia a solidi studi amministrativi una ricca esperienza sul campo, sono d’accordo per buona parte del suo intervento ma non sulla conclusione che “i progetti non servono a nulla” e cerco di spiegarne i motivi. Sulle premesse siamo totalmente d’accordo: necessità, di tanto in tanto, di rivedere e riformare leggi che si dimostrano non più al passo coi tempi o che hanno – alla prova dei fatti – riscontrato criticità, ripensamento sul passaggio dalla finanza derivata ad una mal riuscita autonomia impositiva degli enti locali nonché ai finanziamenti per progetti. D’accordo assolutamente sulla avvenuta trasformazione della burocrazia degli enti locali che, da esperti di bilancio, di diritto amministrativo, di affari generali, sono passati a burocrazia tecnocratica e studiosa dei meccanismi premiali per vincere gare e concorsi. E’ nata di conseguenza una nuova figura apicale: l’accaparratore di punteggi e fondi europei, ministeriali e regionali. Ma si potrebbe dire la stessa cosa delle gare di appalto per lavori pubblici o servizi. Così come, nel campo pubblico tributario e della scienza delle finanze, siamo passati da una finanza derivata ad una finanza compartecipata tra il potere centrale e quello locale – allo stesso modo – nel campo delle aziende private, siamo passati dalle gare basate sul miglior prezzo alle gare fondate sul miglior progetto, dando un peso tra il 40 e il 60% ora al prezzo ora alla qualità. E come nel caso tributario, tutti abbiamo – negli studi e nella pratica – sostenuto che fosse la via migliore.

Nel caso delle gare, constatato che ditte avventuriere praticavano prezzi stracciati, tranne poi a “recuperare” l’eccesso di ribasso con “manipolazioni” sui prodotti e sui servizi offerti, ci siamo tutti illusi che, col meccanismo premiale della qualità, riuscissimo ad evitare risultati scadenti. Senonché, che cosa è successo nelle gare di appalto, ove la premialità è basata su “parametri” prefissati nel bando di gara? E’ successo che gli enti locali hanno avuto mano libera nel fissare tali parametri, con un doppio inconveniente: da un lato i Responsabili del procedimento di gara acquistano un potere assoluto nel predeterminare i vincitori e s’innalza la soglia di “corruzione”, d’altro lato le ditte che sanno di poter contare, in sede di esecuzione di lavori o di servizi, di un controllo flebile dell’ente sull’effettivo rispetto dei parametri promessi e premiati, sono enormemente avvantaggiate. E’ questo il meccanismo che ha consentito, grazie alla ragnatela di rapporti politici, alle grandi centrali cooperative del centro-nord di accaparrarsi le gare più importanti d’Italia. Il criterio vincente è stato “promettere cento” per acquisire il massimo punteggio e impiegare “cinquanta”, sapendo che l’ente aggiudicatario è dalla tua parte e non ricorrerà a controlli e penalità. In altre parole, se il Responsabile di gara inserisce, tra i parametri premiali, 10 punti alla ditta che s’impegna ad impiegare più mezzi, mettiamo più spazzatrici automatiche o più lavacassonetti in un appalto di nettezza urbana, dopo vinto chi controllerà l’effettivo impiego e a chi verrà fatto il controllo? C’è da giurare che, nel caso di ditta amica, i controlli saranno flebili, nel caso di ditta “non gradita” ci saranno controlli a raffica. Dunque, in questo caso il “progetto” e la “qualità” hanno svolto una funzione di pilotaggio della gara. E i responsabili commerciali delle ditte offerenti non saranno più modelli di esperienza e conoscenza di equilibri tecnico-finanziari e di sostenibilità di un progetto, ma saranno tecnocrati accaparratori di punteggi, giovanotti che studiano modelli matematici per accumulare punti per vincere. E l’identico percorso lo seguono i responsabili tecnici degli enti locali nella ricerca di fondi europei, ministeriali e regionali: intercettano le opportunità in base allo studio sistematico di “parametri” per vincere, a prescindere dalla validità e da un’effettiva corrispondenza tra le esigenze reali della comunità locale e il progetto presentato. Ma questo vuol dire, come fa Lello Montuori, che “bisognerebbe avere il coraggio di eliminare per sempre la parola < progetto> dal lessico dell’Amministrazione pubblica e più ancora da quello delle fonti di finanziamento”? A mio avviso, no! E non è vero che amministrare un Comune si riduca a “riparare strade e marciapiedi, ristrutturare scuole e spazi all’aperto per il gioco”. E qui mi riallaccio al mio precedente articolo di domenica scorsa sui “Progetti segretati” del Comune d’Ischia. Parlavo dei progetti attualmente in campo: la ristrutturazione e rifunzionalizzazione dell’ex mercato di via Buonocore, il rifacimento di Pazza degli Eroi, la rivisitazione della sopraelevata, ex SP 270, derubricata da strada metropolitana a scorrimento veloce a strada urbana, infine della ristrutturazione delle rive destra e sinistra del porto d’Ischia.

Sono pensabili tali interventi senza un progetto? E, soprattutto, è pensabile che un Ufficio Tecnico Comunale, nel chiuso delle sue stanze, elabori un progetto mai confrontandolo con alcuno, mai sottoponendolo ad un dibattito preventivo con consiglieri comunali, rappresentanze sociali, cittadini più direttamente coinvolti? Allora quale può essere la soluzione? Ma proprio quella che, involontariamente, adombra Lello Montuori: inserire obbligatoriamente, nelle gare di appalto e nella partecipazione ad assegnazione di fondi pubblici “indicatori assai oggettivi (numero di abitanti, densità di insediamenti, reti infrastrutturali) “ e , nel caso di partecipazione a gare di appalto di ditte private, documentate esperienze pregresse delle ditte, con attestati degli enti appaltanti. Troppo semplice e liquidatorio pensare di distribuire fondi dal centro alla periferia rimettendo ogni responsabilità, dell’impiego dei fondi, all’Ente locale. Lasciare “mani libere” totalmente all’Ente locale, come se le esigenze reali di un paese fossero sempre chiare ed univoche e non avessero invece la necessità di essere democraticamente confrontate con la cittadinanza e con le rappresentanze sociali ed economiche non porterebbe ad una semplificazione e ad una maggiore concretezza dell’operare. Porterebbe ad un sistema ancor più accentrato nelle mani di un esecutivo e di Sindaci-padroni, aprendo praterie al clientelismo e alla demagogia. Conclusione: più che il “Progetto” in sé per sé, è il sistema dei “parametri premiali” in discussione. Non ci può né deve essere discrezionalità nel fissare paletti e parametri e tra questi non può né deve mancare il riferimento a condizioni oggettive in cui la ditta offerente (nel caso di gara di appalto) e l’Ente locale (nel caso di assegnazione di fondi) si trovano. Nella fattispecie è essenziale tener conto di quanto e come le ditte offerenti hanno già dato prova di sé e di che cosa l’Ente locale è già dotato e di cos’altro ha bisogno, in un quadro complessivo di riequilibrio territoriale, in cui nessun ente deve rimanere più indietro di altri.

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