Forio, la Torre Saracena e i conti… che non tornano
Di Francesco Ferrandino
FORIO. La Sezione regionale della Corte dei Conti, tramite il sostituto procuratore Marco Catalano, ha invitato gli ex componenti del Consiglio d’Amministrazione e del collegio sindacale della Torre Saracena, la società deputata alla raccolta e gestione dei rifiuti nel Comune di Forio, a depositare entro 30 giorni le proprie deduzioni in merito a un danno patrimoniale pari a quasi 8 milioni di euro nei confronti del Comune stesso. Secondo la magistratura contabile, la cifra rappresenta la somma dei danni provocati dalla gestione della Torre Saracena, ora in liquidazione, e della sua progenitrice, la Pegaso. Sono così stati chiamati a dare spiegazioni coloro che hanno composto, in tempi diversi, il consiglio d’amministrazione della Torre Saracena Spa: Cristiano Rossetti, Michele Regine, Francesco Fiorillo, Michele Matarese e Ambrogio Del Deo. A questi si aggiungono i componenti di quello che fu il collegio sindacale, costituito da Domenico Miragliuolo, Cristoph D’Ambra, Michele Migliaccio, Giovanni Tonon e Ciro Raia, oltre all’ex sindaco Franco Regine. Come molti lettori sanno, l’antefatto della situazione attuale non può prescindere dalle vicende, strettamente collegate, della Pegaso Spa, nata nel 1991 come società mista pubblico-privato con capitale al 51% detenuto dal Comune di Forio e per il restante da privati imprenditori. Come rilevato dalla Corte dei Conti, sin da subito emersero molteplici criticità nella gestione della Pegaso, caratterizzata da grande spreco di denaro pubblico che portarono in tempi rapidi a un enorme accumulo di debiti, come hanno dimostrato in modo costante i bilanci della società: una voragine che continuò ad allargarsi, nonostante l’aumento della partecipazione pubblica fino al 71% del capitale. Un modello societario incapace di qualsiasi equilibrata gestione economico-finanziaria, fino a quando nel settembre del 2007 fu costituita la Torre Saracena, con capitale interamente pubblico (detenuto dal Comune di Forio), società “in house providing” unipersonale in cui l’organo assembleare e il vertice societario era costituito dal sindaco. L’organo gestionale era costituito da un consiglio di amministrazione composto un Presidente e da tre consiglieri d’amministrazione. La nuova società si vide così affidare il servizio d’igiene urbana, la manutenzione del verde pubblico nonché i servizi cimiteriali. Il punto focale della vicenda è costituito dal fatto che la Pegaso cedette alla neonata Torre Saracena non soltanto il ramo d’azienda riguardante i servizi di nettezza urbana, ma anche la massa passiva, pari a quasi un milione e mezzo di euro. Un pesante handicap iniziale a cui si aggiunse da subito un piano finanziario fortemente sottostimato e totalmente inadeguato rispetto alle spese necessarie per sostenere e gestire un servizio del genere, anche considerando che l’attività di raccolta e gestione dei rifiuti solidi urbani in sostanza non porta utili, che potrebbero essere raggiunti soltanto conseguendo un’altissima percentuale di raccolta differenziata, in modo tale da ottenere rilevanti quantità di materiali da rivendere. Tali volumi tuttavia non furono mai stati raggiunti dalla società, e con uno svantaggio iniziale come quello accumulato dalla precedente Pegaso non vi era la benché minima prospettiva di generare degli utili. Come riconosciuto dai magistrati, in sostanza, sia la Pegaso prima, sia la Torre Saracena dopo, hanno sempre agito in perdita. La prima per l’incapacità degli organi gestionali (ma anche per il mancato pagamento da parte del Comune di Forio), la seconda per aver acquisito, sin dalla sua costituzione, i debiti della prima. In definitiva, come scrive la Procura regionale nell’invito a dedurre, all’ombra del Torrione ci si infila in una situazione paradossale: quella di un comune che inizialmente crea una società partecipata cui conferire un servizio di pubblica utilità (la Pegaso), poi, quando l’azienda è ormai vicina alla “morte” ne crea un’altra (stavolta partecipata al 100%), la Torre Saracena, che fin dall’inizio si è trovata in grosse difficoltà economiche per l’acquisto del ramo d’azienda della cedente. Una “palude” nella quale il Comune, come scrive la Corte dei Conti, non si è dimostrato “buon socio”, con una prolungata inerzia che non ha evitato il protrarsi della situazione debitoria, sia per la Pegaso che per la Torre Saracena. Quest’ultima, essendo a intero capitale pubblico è in pratica considerata come una diretta emanazione del Comune, una sorta di ufficio comunale, e come tale doveva essere soggetta al cosiddetto “controllo analogo”: quest’ultimo è un espediente legale, con la quale il socio pubblico (e unico, in questo caso il Comune), avrebbe dovuto costantemente controllare il corretto andamento del servizio di raccolta e gestione dei rifiuti. Tuttavia, tale “controllo analogo” da parte del Comune, nei fatti, non c’è mai stato. A questo proposito, il sostituto procuratore richiama una relazione del collegio dei sindaci, in cui viene appunto sottolineato che “non risulta evidenza agli atti della società dell’avvenuto ed effettivo esercizio delle funzioni di controllo, ed in particolare del controllo analogo, così come previsto espressamente dallo statuto, ma anzi dai comportamenti trasfusi in azioni giudiziarie da parte della società sembra palesare una forte lacuna nelle attività di direzione che, come più volte ribadito anche dalla giurisprudenza dominante, configurano la società in house come “longa manus” dell’amministrazione socia tanto da considerarla come un servizio proprio dell’amministrazione stessa mai collocabile al di fuori dell’ente pubblico”. In conclusione, per la Corte dei Conti, i soggetti richiamati avrebbero prima creato la società in house (la Torre Saracena) e poi, come una “bad company” hanno ceduto l’unico asset alla Pegaso (poi fallita) lasciando la situazione debitoria e di riduzione dell’originario patrimonio alla gestione liquidatoria. Nonostante la documentata ricostruzione, ciò che comunque lascia perplessi nelle conclusioni tracciate dal sostituto procuratore è l’errata linea di continuità tra i componenti degli organi societari delle due partecipate, che per il magistrato “sono sostanzialmente stati gli stessi della precedente società”, quando in realtà, tra i componenti oggi chiamati in causa, nessuno aveva mai fatto parte della Pegaso.