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Lettere a uno psicanalista – La comicità di Totò

Gentile professore,

sono un uomo a cui piace ridere. La comicità e l’umorismo mi hanno sempre attratto e, ricorrendo a loro, spesso ha affrontato con più leggerezza i passaggi di una vita a volte davvero non facile. Se ben scritto, ben narrato o ben recitato, gusto quello che mi si offre senza preclusioni. Adesso, poi, con Internet, reperire vecchie “chicche”, oltre che vedere brani attuali, è diventato semplicissimo: barzellette, racconti umoristici, pezzi di avanspettacolo, gag surreali, ironiche o satiriche; ogni cosa è a portata di un “clic” del mouse.

        Certo, ci sono dei generi che apprezzo particolarmente, ma più ancora adoro alcuni autori e attori per le loro doti d’inventiva e di espressività. Primo fra tutti resta, ovviamente, l’eterno Totò, le cui trovate e i tormentoni mi tornano sempre alla mente nelle circostanze più disparate. Se analizzo cosa di lui mi faccia più divertire, ogni volta scopro che prevalgono dei singoli aspetti: l’eccezionale mobilità del viso e del corpo, i tempi comici perfetti, la perfezione inarrivabile della sua maschera di disgraziato che può trasformarsi in prepotente e via discorrendo.

Ciò nonostante, mi riesce difficile ricomporre tutti questi elementi, pur significativi, in un quadro che sintetizzi la potenza esilarante del “Principe della risata”, Antonio de Curtis.

        Le chiedo, allora: saprebbe indicarmi lei degli elementi psicologici sulla insuperabile “vis comica” di Totò?

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LA COMICITÀ DI TOTÒ

 

Totò e Peppino in una scena de “La banda degli onesti”,

film diretto da Camillo Mastrocinque nel 1956

 

Gentile lettore,

condivido la sua ammirazione per Totò (1898 – 1967), a cui spesso i registi di commedie (Corbucci, Mastrocinque, Mattioli, Steno ecc.) lasciavano sul set carta bianca, sapendolo mostro dell’improvvisazione. E Totò non li tradiva mai: dava un’occhiata alle poche, esili indicazioni tracciate sul copione e creava, seduta stante, una scena esilarante, irripetibile.

D’altronde, questa capacità l’aveva sviluppata grazie a una lunghissima gavetta, iniziata sin da bambino, quando si esibiva per parenti, amici e conoscenti del popolarissimo Rione Sanità, a Napoli, il luogo dove aveva visto la luce e aveva vissuto in ristrettezze economiche, assorbendone tutta la ricchezza umana e registrandone sia le ingiustizie sociali che le miserie morali. Antonio era nato, inoltre, in una condizione di debolezza rispetto alla società, figlio della relazione clandestina tra l’amatissima madre, Anna Clemente, e il marchese Giuseppe De Curtis, il quale soltanto nel 1921 lo legittimò.

Totò sperimentò a lungo gli stenti, anche come attore di teatro, e solo una passione irrefrenabile e il suo immenso talento gli consentirono di “sfondare”, dopo il lungo apprendistato napoletano, a Roma, prima presso il teatro del famoso impresario Giuseppe Jovinelli e poi sul palcoscenico della Sala Umberto.

La madre, a cui per altro era devotissimo, lo avrebbe voluto, invece, sottufficiale di Marina. Il fatto è che Totò riconosceva di avere un «temperamento anarchico», insofferente a tutte le coercizioni e le falsificazioni sociali. Questa componente assume un evidente peso specifico nel suo stile comico, prorompente e sempre pronto a mettere alla berlina le ipocrisie e le convenzioni di ogni sorta, tipiche di quell’inclinazione che distorce l’autentica personalità che il grande psicoanalista inglese Donald Winnicott definisce “Falso Sé”. A sua volta, nei termini della psicologia analitica di Carl Gustav Jung, potremmo riconoscere in Totò una determinazione a ribaltare l’asse dei valori imperanti, mostrando l’Ombra, la dimensione misconosciuta e non sviluppata dell’uomo cosiddetto “civile”.  A puro titolo di esempio, pensiamo alla pellicola diretta da Marco Mattioli, Totò Tarzan (1950), che si conclude con un giornalista che insegue il protagonista fin nel cuore dell’Africa per chiedergli se abbia apprezzato i comfort della civiltà. Allora, Totò, rinchiudendosi nella sua capanna sull’albero, per godere dell’intimità con la bella compagna e dell’amicizia della scimmia “Bongo”, chiosa sprezzante: «Preferisco la jungla!».

Sempre adottando il linguaggio junghiano, potremmo parlare di una “maschera-Totò” che tende a destrutturare prima, per curare omeopaticamente poi attraverso l’irrisione, l’altra maschera, la Persona, quando questa dimensione psichica archetipica dell’essere umano, per un eccesso di adattamento al mondo, tende a soffocare il Sé profondo e a coartarlo in uno spettro troppo ristretto e astratto di pensieri, vissuti e comportamenti.

Questa linea interpretativa ci conduce direttamente nel solco due tra le teorie più complete di sistematizzazione della sfuggente esperienza della comicità e dell’umorismo: quella del filosofo e scrittore statunitense Ralph Waldo Emerson (1803 – 1882), quella del filosofo francese Henri-Louis Bergson (1859 – 1941) e quella del commediografo Luigi Pirandello (1867 – 1936). Quest’ultimo, in particolare, contrapponeva il movimento spontaneo della “vita” a quello della “forma”, che tenderebbe ad asfissiare il primo tramite norme ideologiche che dirigono l’organizzazione sociale. Ne deriva una “meccanizzazione” dell’esistenza individuale, un potere della maschera sociale di tenere soggiogata e in ostaggio la vera personalità umana. Quando, però, salta il “tappo” della falsificazione, permettendo alla “vita” di erompere in superficie, ciò provoca una percezione del coesistere di una verità interiore e di quel che  la ostacola. Insomma, asserisce il grande siciliano, tale evento suscita “il sentimento del contrario”, in cui albergano congiuntamente il riso e il pianto.

Proprio una meccanizzazione dobbiamo riscontrare in Totò quando simula  i movimenti di un burattino snodabile, avendo assorbito e mandato a memoria  la lezione del famoso Gustavo De Marco (1883 – 1944), soprannominato “l’uomo di caucciù”. In qualche modo, questo difficilissimo gioco corporei – uno dei pezzi di bravura di Totò – prevede che ogni arto e ogni movimento parziale dei muscoli del volto fluisca per suo conto, in una disarticolazione coordinata, in un caos macchinale miracolosamente tenuto assieme da non si sa quale forza attrattiva.  Eppure, non possiamo separare questo tipo di comicità corporea dall’umorismo verbale del “Principe della risata”. Infatti, a mio giudizio, il suo fulcro consiste nel mettere in luce quell’inconscio meccanismo adattivo e difensivo della psiche denominato “dissociazione”. Espresso in termini molto semplici il lavoro della dissociazione consiste nel costruire una “camera stagna” (come si fa nella navi e nei sottomarini quando imbarcano acqua da una falla) intorno a un trauma psichico. Questa separazione è funzionale ad impedire che l’intera struttura dell’Io patisca le conseguenze di un’esperienza intollerabilmente distruttiva. Il problema che, col tempo, comporta l’uso sempre più massiccio di questa formula difensiva è che vaste aree del individuale (ma anche tra componenti di una comunità, se vogliamo osservare il fenomeno in un’ottica sociologica) restano segregate, tra loro incomunicanti e indisponibili alla vita affettiva e ideativa. Ne risulta una forte amputazione della vita psichica che procura un sordo, indefinibile dolore e una vaga e continua percezione di inautenticità. Spesso, in ambito psicoterapeutico su questa sofferenza si lavora a lungo e duramente. Bene, in Totò vediamo che parti dissociate vengono presentate insieme, come se per la prima volta sotto il nostro sguardo dimensioni della psiche che vivevano parallelamente e separate s’incontrassero, inevitabilmente confliggendo. Memorabile è lo sketch del “L’Onorevole Trombetta”. Qui, su un vagone letto diretto a Parigi, il caso vuole che debbano condividere lo scompartimento un Totò passeggero ignorante e qualunquista, ma forte di un’esplosiva carica di autenticità, e l’azzimato deputato Cosimo Trombetta, interpretato dal bravissimo Mario Castellani, il quale dovrebbe esprimere la voce di un popolo che sostanzialmente disprezza. Ne scaturisce una rutilante serie di equivoci, lazzi, prevaricazioni di Totò ai danni del tronfio parlamentare, che riequilibrano e capovolgono, addirittura, il potere delle componenti in campo, e ciò tanto più quanto l’Onorevole vorrebbe distanziare da sé l’inopportuno compagno di viaggio, mantenendo in piedi la dissociazione (che in questo caso assume l’aspetto di una malcelata  segregazione sociale).

Ancora più chiaro è, però, il disvelamento di come sia in atto il meccanismo psichico della dissociazione in una altra notissima gag, dove Totò è sempre sorretto dalla spalla Castellani. In questa, il protagonista racconta, «scompisciandosi dalle risate» all’amico, che si lamenta del suo giungere in ritardo all’appuntamento, di come sia stato ripetutamente offeso e malmenato, per strada, da un uomo che, accanendosi su di lui, gli ripeteva: «Pasquale, prendi questo … e questo!». Castellani, preoccupato dall’evolvere del racconto, insorge: «Ma come, tu ridi? E che hai fatto: non hai reagito?»; «No, no, anzi … io l’ho lasciato fare … », afferma Totò, preso da un riso convulso. «E perché l’hai lasciato fare?», ribatte inquieto l’interlocutore. «Perché, mi dicevo: fammi vedere questo sin dove vuole arrivare … ». Il resoconto continua in un crescendo di risate di Totò, che procedono di pari passo con il resoconto plastico dell’angherie subite. Infine, all’ennesima protesta dell’amico, Totò conclude vittorioso, giustificando la sua inerzia: «E che mi chiamo Pasquale, io?!» …

In questa circostanza, il personaggio di Totò ci mostra magistralmente come egli si dissoci totalmente dal proprio destino, godendo addirittura sado-masochisticamente delle proprie sventure. Questo pezzo rappresenta, dunque,  un arabesco psicologico e filosofico, una sublime riflessione di cosa muova la comicità stessa, un racconto comico sulla natura e sui moventi dell’azione comico-umoristica nel cuore stesso dell’anima umana.

 

 

 

 

 Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma in una scuola di specializzazione per psicoterapeuti, formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma e a Ischia. Ha fondato e dirige il webzine e il quadrimestrale internazionali “Animamediatica”.

Contatti

E-mail: francescofrigione62@gmail.it

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