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I segreti della Posidonia in una ricerca della SZ ‘Anton Dohrn’

Gianluca Castagna | Ischia Il pericolo diventa evidentissimo soprattutto d’estate. Negli infuocati weekend, durante i quali le acque che bagnano Ischia assumono le sembianze di un’autostrada del mare. Quando il carattere “rapinoso” del turismo mordi e fuggi rischia di distruggere una delle piante più preziose del nostro ecosistema marino: la Posidonia.
L’ancoraggio di barche di ogni grandezza a pochi metri di profondità, in prossimità delle praterie di Posidonia che l’Isola Verde può ancora vantare nei suoi fondali, si è affermata come pratica abituale.
Malgrado l’istituzione dell’Area Marina Protetta, o forse proprio in virtù delle innumerevoli traversie che ne hanno segnato il cammino e paralizzato il funzionamento, decine di ancoraggi al giorno strappano quotidianamente la pianta dal suo fondale. Più grande è l’ancora, più dannosa l’aratura. Un impatto che estirpa le radici e gli steli, a fronte di un processo di rigenerazione troppo lento per compensarne il violento sradicamento.
Così, tra pesca selvaggia, scarichi fognari, tubature assassine e ancoraggi (sempre più) disinvolti, quelle che una volta erano vere praterie di Posidonia a fine stagione sono ridotte a sparute macchie di vegetazione. Accade puntualmente di fronte alla spiaggia delle Monache di Lacco Ameno, conosciuta anche come spiaggia di Varulo, e – forse in misura minore – sui fondali attorno al Castello Aragonese.

Dopo più di sessanta milioni di anni, la Posidonia Oceanica è, a dispetto del nome, una vera e propria una cittadina onoraria del Mediterraneo. Anche se a perenne rischio di sfratto. Oggi finalmente comincia a beneficiare di un meritato riconoscimento di ricchezza e di elemento vitale per il mantenimento di una buona salute del Mare Nostrum, svolgendo un ruolo equiparabile a quello della grandi foreste pluviali delle terre emerse. Un metro cubo di Posidonia, tra l’altro, genera più ossigeno di un metro cubo di foresta amazzonica. Perché, al contrario di quanto si pensi, la Posidonia non è un’alga, ma una pianta.
Certo, per molti bagnanti non è il massimo trovarsi a nuotare tra le sue foglie; ma conviene fare poco gli schizzinosi: se nella spiaggia in cui ci troviamo si ammassano i fili di Posidonia, allora è buon segno. Significa che l’acqua è pulita e che l’anno successivo le onde non si saranno mangiate un pezzo di spiaggia.
Il funzionamento di questo complesso ecosistema chiave del Mediterraneo è stato l’obiettivo principale del prezioso studio pubblicato di recente sulla rivista “Scientific Reports”, che ha identificato le strategie di adattamento impiegate dalla pianta in rapporto alle variazioni di luce e alla profondità in cui si trova.
La ricerca, effettuata in Corsica, ha visto la Stazione Zoologica “Anton Dohrn” di Napoli in prima linea nel corso dell’intero progetto (EU-Cost Action ES0906), cui hanno preso parte partner europei (Portogallo, Belgio, Svezia e Italia) ed extra-europei (Australia e Israele). Grazie a tecniche di analisi all’avanguardia, i ricercatori della “Anton Dohrn” Gabriele Procaccini, Miriam Ruocco, Lázaro Marín-Guirao, Emanuela Dattolo, Christophe Brunet, Daniela D’Esposito, Chiara Lauritano, hanno compreso meglio il funzionamento dell’ ecosistema di Posidonia.
Come evidenziato nell’articolo, «la luce influenza fortemente le attività metaboliche della pianta. Le piante più vicine alla superficie si attivano prima e più a lungo, pur dovendosi difendere dalla troppa luce nelle ore centrali della giornata. Le piante che si trovano più in profondità invece, si attivano più tardi, e hanno un metabolismo più lento. A seconda dell’ambiente, dunque, le praterie di Posidonia presentano un diverso patrimonio genetico ed eventuali forti cambiamenti di tali ambienti, anche come diretta conseguenza delle attività dell’uomo, potrebbero mettere a rischio la loro sopravvivenza».
Va ricordato, infatti, che le praterie di Posidonia svolgono importanti funzioni ecosistemiche perché ospitano una grande varietà di specie animali e vegetali, anche forme giovanili di esemplari oggetto di pesca; producono grandi quantità di ossigeno, tamponando gli eccessi di anidride carbonica immessa nel mare; stabilizzano i fondali, proteggendo la costa dall’erosione. Nelle aree riparate, dove le acque sono poco mosse e quindi tendono a favorire una maggiore sedimentazione, le praterie di Posidonia matte possono alzarsi fino a che le foglie non raggiungono la superficie dell’acqua. Si crea in questo modo una barriera che ha un ruolo importantissimo nella protezione della linea costiera dall’erosione.

E’ necessario dunque che la Comunità europea, come i singoli Stati che si affacciano sul Mediterraneo, adotti quanto prima tutte le misure di tutela della Posidonia, compreso il contenimento o la limitazione di ogni attività che possa comprometterne l’esistenza e lo sviluppo. Le scoperte contenute nella ricerca a cui hanno partecipato i ricercatori napoletani diventano importanti, ad esempio, per i programmi di riforestazione, perché indicano che le piante che si sono adattate a vivere vicino alla superficie dell’acqua non possono essere impiantate a 40 metri di profondità e viceversa.

Una questione che ha riguardato anche l’isola d’Ischia in occasione del trapianto avvenuto nel sito attiguo a quello del fondale marino dinanzi alla Punta di San Pietro, in occasione dei lavori di scavo per far passare la condotta sottomarina del gas metano. Insomma, le future misure di tutela andranno adottate anche in base ai risultati delle ricerche scientifiche sulla Posidonia.
Solo in questo modo si potrà realmente preservare questo prezioso ecosistema, il cui valore economico è attualmente stimato addirittura superiore rispetto a quello delle barriere coralline e delle foreste tropicali.

 

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