«Ho fatto della mia vita il “Film” che sognavo»
Il 1° ottobre, dopo 45 anni di attività sempre al servizio dei suoi pazienti e della gente, andrà in pensione il medico Carmine Barile, figura iconica della nostra comunità. A Il Golfo un’intervista toccante e struggente nella quale ripercorre il suo percorso professionale ma anche umano: «Sono diventato ciò che volevo. E continuerò ad esserlo»
Andrà in pensione dopo 45 anni di onorato servizio. Come si sintetizza quasi mezzo secolo di storia professionale?
«E’ stata un’avventura meravigliosa, nel bene e nel male: ho fatto nella vita quello che avevo sempre sognato e chi riesce a realizzare i suoi sogni crea la sceneggiatura di un film inevitabilmente bellissimo».
Riavvolgendo il nastro, quali sono i suoi pensieri, i suoi ricordi, i suoi sentimenti?
«Ho cominciato ad essere interno già al mio quarto anno di medicina respirando l’aria del Policlinico. Ero in clinica medica, facevo gli esami di reumatologia, affiancavo il professore, anzi la professoressa Anna, stavo con Mario Giordano. E’ stata un’esperienza magnifica che mi ha fatto anche comprendere quanto fosse limitativa la carriera universitaria. Loro volevano per forza che facessi l’internista, forse per quella che era la mia forma mentis. Mio padre era cardiologo, igienista, anche lui insomma era del settore. Avevo un ramo della mia famiglia composto da ginecologi. Ecco, qui vorrei sottolineare un aspetto».
Prego.
«Ho sempre sognato la nascita. Vedere e aiutare a nascere era per me la cosa più bella che si potesse immaginare. Sono andato via da Napoli, ho vinto concorsi sia alla Sapienza che a Perugia dove c’era questa scuola di specializzazione all’avanguardia in ginecologia ostetricia. Rispetto al passato era cambiato tutto, anche i programmi, per cui la scelsi. Nel frattempo venni assunto all’ospedale Cardarelli: quello è stato il momento delle ansie e delle paure, perché mentre sei di guardia capitavano anche casi tali da far drizzare i capelli. Non sentire più il battito di un bambino, estrarlo immediatamente, andare anche ad eseguire un cesareo in bara».
Ho capito bene… in bara!?
«Hai capito benissimo, forse siamo stati gli unici io e il dottore Iannuzzi. Ricordo come fosse ieri: il bambino si muoveva nel corpo di una ragazza di 23 anni che purtroppo era deceduta in pronto soccorso. Il ginecologo di guardia non era andato, i parenti stavano mettendo tutto a soqquadro per la disperazione, dovemmo operare in una condizione tutt’altro che agevole».
Poi arrivò l’epoca della mutua…
«Correva il febbraio del 1980, si aprì una finestra per chi voleva prendere le casse mutue e mi proposi anche io facendo la domanda. All’epoca potevi fare più cose, la legge lo permetteva. A un certo punto iniziai anche a pensare di fare il ginecologo a tempo pieno proprio perché quella specializzazione di dava la possibilità di far nascere e di aiutare a nascere, non a caso la mia tesi di laurea fu innovativa occupandosi delle nuove tecnologie di inseminazione».
Quando ha capito che essere medico di base l’avrebbe fatta diventare un irrinunciabile punto di riferimento di una comunità in maniera così marcata conquistando la stima e l’affetto di più generazioni? O non l’avrebbe mai immaginato?
«Innanzitutto preciso che è stata una mia scelta, presumibilmente influenzata anche dal periodo di leva. Ho ricoperto l’incarico di ufficiale medico. Lì mi si è aperta un’altra strada, ho vissuto una nuova esaltante esperienza: avevi tanti giovani soldati che dovevi visitare, aiutare, indirizzare, molti erano depressi perché facevano il militare controvoglia. Sono certo che avrei fatto una brillante carriera nell’Esercito, come accadde a molti miei coetanei e compagni d’avventura all’epoca, ma è un’ipotesi che ho scartato. Mia madre era contraria, ma tra l’altro non voleva nemmeno che diventassi medico. Veniva da una famiglia di medici, e lei aveva un solo maschio con tre femmine. Sai cosa volevi che facessi?».
No, proprio non ci arrivo.
«O il notaio o l’ingegnere, ovvio. A Ischia quello era il periodo del boom edilizio, o si costruivano case o si redigevano atti notarili, i veri business erano quelli. Cosa vuoi che guadagnasse all’epoca un medico? Se andavi a casa di una persona indigente affetta da polmonite, al massimo si veniva ricompensati con delle uova fresche. E magari finiva pure che dovevi lasciargli i soldi per comprare le medicine. In fondo le proprietà di famiglia le dobbiamo a mia madre, non certo a mio padre che non ha pagato neanche un mutuo. Certo, ci ha dato la possibilità di studiare e realizzarci, ma la mamma era ricca ed ha avuto la possibilità di costruirsi le proprietà. Insomma, per la mia scelta ho dovuto combattere e non poco, ma è stata voluta e non sofferta ma agognata. L’ho fatta con piacere, ancora oggi ne sono orgoglioso. E poi…».
E poi?
«E poi si è posto l’interrogativo: cosa fare? Medico di base, ospedaliero? E’ stato a quel punto che ho deciso di essere primario di me stesso, l’attività ospedaliera aveva carenze e subordinazioni che non si sposavano con il mio rigore etico. Mi sentivo spesso violentato dalle scelte, per essere più esplicito. Volevo potermi gestire il lavoro ed essere sempre a disposizione dei pazienti in base ai loro problemi o necessità, era un qualcosa che mi gratificava molto di più »
Adesso arriva la pensione, cosa farà Carmine Barile da grande?
«Devi sapere che c’è il volontariato, attività alla quale ho sempre partecipato e che mi vedrà ancora protagonista. Il mio sogno, un tempo, era quello di potermi recare in Africa: oggi purtroppo sarebbe un pericolo, devo tutelare la mia salute, prendere una malattia tropicale a quest’età non è la stessa cosa che a 40 anni. Vedi, però cambia poco. Mio nonno diceva che l’Africa è qui, basta girarsi e trovi gli africani. E’ stato un grande giornalista, il primo giornalista ischitano, il primo filosofo. Diceva che gli africani sarebbero venuti qua e a distanza di decenni posso affermare che aveva visto giusto. A Napoli, poi, c’è una “sotto città” che nessuno vede o vuole vedere (comprese le istituzioni) che ha necessità anche di medici. Sono tante le persone che non hanno un medico, che magari temono anche di recarsi in ospedale per tutta una serie di motivazioni che nemmeno vale la pena di stare qui a spiegare. Tante persone senza Dio e senza casa vengono accolti in ambulatori dove li visitiamo e vengono curati nel pieno anonimato a spese nostre. Credimi, l’Africa sta anche a Napoli…».
C’è un messaggio che vuoi indirizzare a tutti i pazienti che ti hanno accompagnato in questa avventura meravigliosa?
«Non un saluto, ma un arrivederci. Io credo nell’arrivederci. Se sono riuscito a fare tanto, lo devo anche alle cosiddette benedizioni di tutte quelle persone – e ho la pelle d’oca nel pronunciare queste parole – che mi hanno tributato affetto. Credo in determinate cose, sono sicuro per davvero che chi fa del bene riceve del bene. Io ho sempre preferito donare piuttosto che ricevere, anzi ricevere mi procura quasi fastidio e imbarazzo. Quando vedo che delle persone povere mi portano un coniglio o piuttosto delle uova io dico sempre loro di non preoccuparsi e di evitare questi gesti, perché sono pagato dall’ASL. Chiudo con un pensiero. Ciascuno di noi ha un sogno da bambino: diventare astronauta, ingegnere, archeologo, vuol fare di tutto. Ecco, io ho fatto tutto quello che sognavo da piccolo. E continuerò a farlo».