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Raffaele Imbò lancia “Il Polpettone”: «Vi racconto un incubo durato cinque anni»

La domanda può sembrare banale, però ci aiuta ad inquadrare un po’ il contesto. Noi ci troviamo a pochi metri dal “campo di battaglia”: al di là dei ricordi che scaturiscono dai filmati che hai prodotto, tu personalmente che ricordi hai degli anni trascorsi tra quei banchi?

«Sicuramente non ho delle sensazioni positive al riguardo, perché sia quello che era il contesto sia quella che era l’aria che si respirava normalmente non erano dettati da un “governo intelligente”. Io poi ebbi un’esperienza abbastanza singolare, quindi non posso dire di aver un bel ricordo delle superiori. Avevo incubi tutte le notti, e questo ovviamente mi destabilizzava molto».

Ci potresti raccontare, sempre che non ti sia troppo duro farlo, questa “esperienza singolare” che hai vissuto?

«Per un lungo periodo ho faticato tantissimo a parlare di scuola, di professori e dell’ambito scolastico in genere. A un certo punto qualsiasi cosa mi venisse detta sulla scuola, la evitavo e dicevo: “No, non me ne parlare, ti prego”. Questo accadeva anche con persone che non conoscevano la mia vicenda personale. Adesso invece, essendo trascorso del tempo, riesco ad esternare i pensieri e a parlarne più normalmente».

Tutta questa tua repulsione nei confronti della scuola derivava magari da atteggiamenti poco ortodossi di alcuni insegnanti?

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«In quelle che sono le dinamiche ordinarie delle scuole soprattutto del Sud Italia, certamente ho avuto un po’ più di sfortuna. Io e alcuni dei miei compagni ci siamo “ribellati”, e per questo motivo ne abbiamo passate tante, e la sfortuna di cui parlo comprende anche tutta una serie di scontri con tutti i docenti. Tutti i professori che insegnavano nella mia classe – eccezion fatta forse per uno – hanno fatto letteralmente “schifo”. Non se ne salvò uno: tutti erano proni a quello che era il sistema».

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Ma facevano “schifo” soltanto da un punto di vista didattico o anche da un punto di vista squisitamente umano?

«Entrambi. A un certo punto, poi, ci fu questo “no” umano da parte di noi studenti: molti dei nostri professori furono viscidi, senza spina dorsale, detestabili».

Al momento è stato pubblicato soltanto il trailer de “Il Polpettone”, dal quale però si desume il contesto nel quale avete vostro malgrado vissuto per cinque anni. Nel promo della tua docu-inchiesta è descritta anche la totale nullafacenza che contraddistingueva le vostre giornate. Ci racconti la vostra routine quotidiana?

«C’erano delle giornate in cui del professore non vi era traccia alcuna, ma ce ne erano anche altre in cui il docente veniva in classe, faceva la sua lezione e poi andava via, e quindi non esisteva alcuna continuità didattica. Questo modo di fare non ti dava la possibilità di dire che la lezione non era stata fatta. Concretamente – e paradossalmente – l’insegnante aveva svolto la sua lezione frontale, ma essa non portava ad alcun risultato tangibile».

Nel trailer si vede poi che oltre agli alunni, anche i professori perdevano tempo con il cellulare.

«Questa cosa accadeva anche con i supplenti che venivano a sostituire un professore che magari c’era a scuola, ma che non faceva lezione da noi. Un fatto davvero surreale: l’insegnante era a scuola, ma spesso si trovava nell’ufficio della preside a chiacchierare. Ovviamente loro possono dire che era per motivi didattici. La cosa assurda è che la dirigente scolastica chiamasse il professore che aveva lezione da noi durante le ore in cui avrebbe dovuto essere in classe. E questo accadeva molto spesso. Le lezioni dei nostri professori le chiamavamo le “merendine”. Ci fu addirittura un mio compagno di classe, Alessio Pilato, che sviluppò “la teoria delle merendine”: venivamo trattati come i bambini che vengono piazzati davanti alla tv e ingozzati di merendine perché i genitori si scocciano di preparare loro una cena sana. Stessa cosa accadeva con i nostri professori, che non avendo nessuna predisposizione o voglia di trasferire dei concetti a noi ragazzi, ci propinavano merendine, ovvero lezioni lanciate in maniera molto superficiale, così da non poterci permettere di dire che la lezione non era stata fatta. Adesso i professori potrebbero dire: “No, in quel frangente noi abbiamo fatto la lezione”. È però importante ribadire che senza una continuità, non si impara niente».

A un certo punto prevale però il desiderio – o, meglio, la necessità – di ricordare affinché anche gli altri potessero vedere un giorno il disagio che hai vissuto sulla tua pelle. Quando hai deciso di iniziare a filmare la realtà che ti circondava?   

«Come tutti fanno in prima e in seconda, filmavo con gli amici per ricordare qualche “bravata” commessa a scuola. Dal terzo anno ho cominciato a non capire perché non capivo alcune spiegazioni. Pertanto, dal momento che possedevo una videocamera, decisi di cominciare a filmare, e questo con tutta l’innocenza del mondo. Sempre quell’anno iniziarono a circolare voci sulla dirigenza, e le opinioni molto spesso si scontravano: c’è chi ne parlava assai bene, chi malissimo. Secondo quelli che sono i racconti che ho ascoltato, prima che io vi approdassi l’alberghiero era un istituto allo sfascio: non c’era una vera dirigenza, non c’era ordine. Il problema è che poi si è passati dall’anarchia più totale a un “regime” autoritario, non intelligente».

Quando hai capito che quel materiale sarebbe servito per realizzare una docu-denuncia?

«Le cose ovviamente hanno avuto un’evoluzione graduale. Come già ho detto, sono partito filmando perché non capivo alcune lezioni, poi dopo gli scontri mi sono detto: “Magari quando mi diplomo ne potrebbe uscire un piccolo video su quella che secondo me è la scuola italiana”. Avrei voluto fare un’analisi generale: mai avrei immaginato che ne sarebbe uscita fuori una cosa del genere. In quarta maturai l’idea di realizzare un filmato per ringraziare Riccardo Sepe Visconti, che si è dedicato a noi ragazzi molto più di quanto abbiano fatto i nostri professori. Quando lo cacciarono da scuola, continuai a registrare i meccanismi che regolavano la scuola. Ed è proprio in quel momento che pensai che forse si poteva cucire qualcosa di interessante. Da metà quinta in poi, mi sono detto: “Ok, qui devo continuare ad archiviare filmati, perché sicuramente ne uscirà un documento molto utile”».

Finora mi hai parlato soltanto di alcuni “attori” di questa storia, ma la principale protagonista è certamente la preside Giuliana D’Avino.

«Uno dei fulcri del racconto è certamente la dirigente, il “pesce grosso” del film è lei. Mi duole però ammettere che la D’Avino non ha tutte le colpe».

Per quale motivo allora viene connotata in maniera così negativa?

«Perché ha costruito quelle che erano le condizioni per far sì che lei potesse, anche con una certa arroganza, fare o non fare determinate cose. Si scontrava molto spesso con insegnanti intenzionati a realizzare dei programmi e portarli avanti, e così facendo li allontanava».

Nel promo, tra le tante, si legge questa frase: «La preside invece ha detto che meno uno è disponibile nei confronti della scuola e delle istituzioni… e meno poi renderà».

«Questa è una delle tante. La D’Avino, come ho detto, allontanava gli insegnanti con maggiore personalità».

Eppure, nonostante tutto, ha accolto un insegnante sui generis come Riccardo Sepe Visconti. Come te lo spieghi?

«Lei non lo sapeva (ride, ndr). Ciascun dal proprio cuor l’altrui misura: sono convinto che la preside non immaginasse che Riccardo avrebbe fatto quello che poi ha fatto. Secondo me non immaginava assolutamente che Riccardo potesse trasferirci dei concetti in maniera così genuina, e peraltro senza un ritorno economico stabilito».

Mi stai dunque dicendo che Riccardo non aveva un contratto e non percepiva alcun rimborso spese?

«Considerata la pessima situazione didattica, proposi a quella che all’epoca era la mia “insegnante” d’italiano (Raffaele rabbrividisce al solo ricordo, ndr) il messaggio che mi aveva inviato Riccardo, che si era reso disponibile a fare lezioni integrative nelle ore in cui mancavano professori di ruolo. Appresa la proposta di Riccardo, Giuliana D’Avino con molta superficialità, a due mesi dalla chiusura dell’anno scolastico, diede il suo placet. Nel documentario sono presenti le conversazioni che ho avuto con Riccardo, che mi riferisce che Giuliana D’Avino gli avrebbe detto: “Fai, fai, fai!”».

Riccardo alla fine, come detto, fu “cacciato”.

«L’anno finì e non lo richiamarono, perché iniziò ad essere visto come un “sovversivo” che poteva creare problemi al “sistema”. Durante le sue lezioni – che potevano durare anche sei ore di fila – la classe si trasformava da un branco di amebe ad esseri pensanti. Posso giurare – e dimostrare con i filmati – che i ragazzi lo ascoltavano dal primo all’ultimo minuto. Addirittura si faceva a gara a chi dovesse occupare i primi banchi!».

Un clima di generale entusiasmo da fermare a tutti i costi.

«Riccardo accese una luce, quindi gli dovevano per forza tarpare le ali».

Sospetti che qualche professore, ingelosito da questo approccio innovativo, abbia messo la pulce nell’orecchio della D’Avino?

«Sì, ne sono più che convinto. Il braccio destro della preside fu a capo della congiura ordita contro Riccardo, che avrebbe dovuto far parte anche dei consigli di classe. Un rischio che non potevano permettersi di correre. Con un documento scritto noi alunni chiedemmo di reintegrarlo, ma le nostre istanze non furono accolte. Da lì nacque e si sviluppò il successivo scontro».

Ci racconti il tuo – vostro – primo scontro con la D’Avino?

«Vinsi un concorso, e lei disse che non era contenta perché vincevo sempre tutto io. Mi disse, e fu molto chiara nel farlo, che non era felice per una “questione di equità”. Questa vicenda mi mortificò molto, perché a suo dire non era giusto che vincessi sempre tutto io. In terza ci fu uno scontro un po’ più duro. Entrò in classe, puntò il dito contro di me e un altro ragazzo e ci disse: “Se non vi tagliate i capelli, vi boccio!”. Era marzo, e alcuni professori ci persuasero a rispettare la volontà della preside. Anche la mia famiglia e alcuni amici mi invitarono ad assecondare le assurde pretese della D’Avino, e gli alunni dell’altra classe se li tagliarono. Il giorno dopo, a scuola, entrai in classe e dissi alla mia insegnante: “Prof, ho deciso: non li taglio!”. La D’Avino, nel suo delirio di onnipotenza, vietava financo agli alunni di indossare la tuta da ginnastica, i piercing e i pantaloni a zampa d’elefante. A lei piaceva stare sul piedistallo e comandare, tutto qui».

Pensi mai a cosa accadrà quando renderai pubblico “Il polpettone”?

«No».

Il tuo però è un duro j’accuse.

«Spero che questo documento – che poi è il primo che racconta certe dinamiche dall’interno – abbia il destino che merita, e che soprattutto venga preso in considerazione da chi di dovere, quindi anche dal Miur e dalle autorità giudiziarie. In definitiva, mi auguro che questo film faccia quello che deve fare, ovvero rimanere sullo stomaco: l’auspicio è che questo “polpettone” possa in qualche modo risvegliare le coscienze sopite di qualcuno».

Francesco Castaldi

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