LE OPINIONI

IL COMMENTO Metaverso ovvero mi illumino di (falso) immenso

DI ANNA DI MEGLIO COPERTINO

Come in una forma di psicosi collettiva la social globalità continua a usare il “dire” in maniera, per usare un eufemismo, “creativa”, affinché la mera affermazione, ancorché gratuita, sia in sé garanzia dell’essere. Al di là delle contraffazioni a fini truffaldini, esiste dunque anche una voglia di sensazionismo diffusa, affiancata dal desiderio di condividere un mito, una fiaba, soft o dark poco conta, come le vecchie catene di Sant’Antonio, come antichi riti di magia del dire, trasmessi da tribù, primitive, evidentemente, rispetto a noi, solo tecnologicamente, ma sostanzialmente rimaste identiche, dai druidi agli stregoni dei nativi d’America, protagonisti di storie riproposteci mille volte, in narrativa e film, da Excalibur a Harry Potter. Si verifica dunque, nella nostra società ipertecnologica, un continuo propagandare immaginazione, ossia finzione, come realtà, e questo immaginario, propagandosi e immediatamente radicandosi nell’immaginario collettivo, modifica già la realtà, integrandola di “visioni”, che di fatto condizionano il futuro. Se ne parla come di “iperstizioni”, profezie autoavverantesi o story telling, basate su marketing concettuale, e così denominate da Nick Land, teorico dell’accelerazionismo, cioè del movimento che ritiene necessaria e auspicabile l’eliminazione di qualsiasi vincolo o remora di tipo etico o normativo al diffondersi totale ed esuberante e spregiudicato del capitalismo.

Di tali iperstizioni il metaverso è esempio calzante. Una finzione di realtà, pubblicizzata tramite una finzione di spazio, quello cibernetico, in cui realizzare – immaginare e fingere di realizzare – le nostre pulsioni, i desideri frustrati, una dimensione di vita lontana da quella, percepita come sempre più invivibile o comunque insoddisfacente, cui la realtà sembra inchiodarci. E tutto questo, la ennesima “fabbrica dei sogni”, la droga che ci faccia librare sopra ogni vincolo ( non senza rischi di assuefazione), la libagione che ci ecciti, la fiaba che schiuda i suoi cancelli dorati oltre il giardino dell’infanzia, è il carrozzone di Mangiafuoco o del Paese dei Balocchi, azionato da business di proporzioni gigantesche. Si chiama dunque Meta, ex Facebook, l’azienda di Zuckerberg, che vi ha investito miliardi. Si chiama Microsoft, che a sua volta lavora su ologrammi ad alta definizione; o Google, con i suoi 540 e passa milioni di dollari puntati sulla realizzazione del visore della Magic Leap, che proietta immagini in 3D sul nostro mondo reale; o Sony e Samsung, miranti a traguardi non dissimili, parallelamente ad altri di indiscutibile utilità e progresso. Il metaverso, così qualificato da Neal Stephenson, nel romanzo fantascientifico Snow Crash del 1992, nasce in una società distopica, in cui il potere politico cede progressivamente il passo alle multinazionali ( dunque una eventualità non così lontana dai nostri tempi), le quali schiacciano gli individui in meccanismi di sfruttamento occhiuto, offrendo, come “oppio dei popoli”, come ai reietti dell’antica Roma, storditi e drogati nelle arene, cabine in cui abbandonare la realtà del limite, per vivere sogni sconfinati in mondi virtuali. Sappiamo come la pandemia, schiacciandoci al chiuso, abbia segnato l’accelerarsi dello sviluppo delle piattaforme virtuali; prossimi orrori – virali, bellici, climatici – potrebbero sempre più, in scala apocalittica e, al tempo stesso, reale, determinare quanto da Stephenson immaginato.

E tutto questo, come anticipavo nella introduzione, non sarebbe che la veste moderna calzata su meccanismi tipici dell’essere umano, cui la realtà non è mai parsa univoca e definitiva, soprattutto mai soddisfacente. Dalla religione alla filosofia, dalla politica all’arte, dalle intuizioni scientifiche alle costruzioni pubblicitarie, il viaggio dell’uomo è sempre andato oltre i fatti, comunque non oggettivi se sottoposti alla lettura e percezione ingannevole dei sensi, e sempre interpretabili. La semplice campana a morte, annunciante, fin dagli anni della consapevolezza, il nostro finire, ci ha indotti a cercare alternative. Il metaverso è stato il sogno produttore di deità pagane o di un unico Dio di tempi successivi, il mondo di ombre – avatar della caverna di Platone, la ragione “res cogitans”, la costruzione “ideale-delle-idee” : oggi, l’algoritmo, che elabori sistemi illusori, per ovviare alle richieste eternamente senza risposta del nostro spasmodico e vertiginoso bisogno di immenso.

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