IL COMMENTO Dopo il disastro rigenerare l’esistente o naturalizzare?

DI GIUSEPPE LUONGO
A una catastrofe segue il soccorso e la ricostruzione. Spesso il soccorso è tempestivo e avviene anche con azioni coraggiose che emozionano la comunità coinvolta. Purtroppo, la fase che segue, quella della ricostruzione, è irta di difficoltà e si dilata nel tempo per la farraginosità delle norme e dei regolamenti. Queste condizioni sono ritenute, dagli stessi responsabili della cosa pubblica impegnati nella ricostruzione, la causa della mancata tempestività delle opere programmate, definendole lungaggini prodotte dalla burocrazia. Ironia della storia la critica alle istituzioni competenti è espressa da quanti producono le norme e le regole che ingesserebbero gli interventi programmati per la ricostruzione. Le loro conclusioni, quando si realizzano, travalicano la durata del decennio o più decenni per i casi più clamorosi. Gli esempi drammatici per la loro durata sono numerosi, eppure non si riesce a produrre un’inversione di tendenza. Questo fenomeno è diffuso in tutte le regioni del nostro Paese; quindi, si tratta di una inefficienza di carattere generale, alla quale il contributo del “clima culturale” locale agirebbe da aggravante.Questo scenario emerge in questi anni nell’Appennino centrale colpito da terremoti nel 2016, a Casamicciola con il terremoto del 2017 e il disastro idrogeologico del 2022, a Pozzuoli con la crisi bradisismica di quest’ultimo decennio. In questa nota limitiamo le osservazioni agli eventi che interessano l’isola d’Ischia e l’area flegrea, ma quanto emerge può applicarsi anche alla comprensione dei ritardi della ricostruzione dei borghi dell’Appennino.
La parola magica “rigenerare” ritorna di moda dopo decenni quando si discuteva dei piani urbanistici dei centri storici delle nostre città, anche con qualche successo, poi scomparsa, almeno per i non addetti ai lavori. La parola riemerge per ricostruire senza l’incremento del consumo di nuovo suolo, previsto dalla norma. Dalla Treccani apprendiamo che nella tecnica la parola rigenerare significa rinnovare o riportare allo stato iniziale. Non intendo approfondire il significato del termine per un urbanista o un ingegnere strutturista,ma mi chiedo se il vincolo del divieto del consumo di suolo, porti con sé altri vincoli o non se ne parla per evitare anche vincoli volumetrici nelle strutture. Se si è in un’area pericolosa il volume dell’edificio ha il suo peso nella valutazione del rischio dell’area, in quanto si incrementa il valore esposto, uno dei parametri che compaiono nella quantificazione del rischio, unitamente alla pericolosità e alla vulnerabilità del costruito. A Ischia sembra emergere una diversità di vedute tra le amministrazioni locali, regionale e Commissariato sul Piano di Ricostruzione e su quello Paesaggistico, una vera e propria Torre di Babele, direbbe un urbanista. Infatti, se il Piano Paesaggistico pone vincoli al Piano di Ricostruzione, come è possibile predisporre e approvare quest’ultimo, senza aver approvato il Piano Paesaggistico? Tutto ciò è una grave inadempienza verso una comunità che non vede prossima la soluzione degli effetti del disastro sismico e idrogeologico. Ci si chiede se occorrano ancora prove, dopo quasi 8 (otto) anni dal sisma, per riconoscere la mancata ricostruzione di Casamicciola. I responsabili hanno più volte richiamato l’attenzione sulla complessità della ricostruzione di Casamicciola, segnalando la sovrapposizione dei due disastri, sismico e idrogeologico. In realtà le dimensioni delle aree colpite dai disastri naturali sono contenute e riguardano un’area geologicamente ben nota, con numerosi studi geologici, geofisici e vulcanologici, sulla sismicità dell’Isola e sulla storia eruttiva. A questi dati si aggiungono anche i risultati delle microzonazioni sismiche, effettuate all’indomani del terremoto del 2017. Quali sono le difficoltà straordinarie? Forse non sono naturali. A queste devono dare risposte i responsabili della ricostruzione e le amministrazioni, non la tecnica e la scienza.
Perché Ischia abbia in futuro un ulteriore sviluppo occorre abbandonare il modello che ha mostrato invecchiamento e inadeguatezza per affrontare nuove esigenze emerse in questi anni. Innanzitutto, per evitare che l’Isola diventi uno scoglio (non me ne vogliate per questo termine che ho appreso da qualche dibattito nell’Isola) in mezzo al mare circondato da un cordone, spesso denso, di edifici di varia fattura, da attraversare per raggiungere la parte verde dell’Epomeo, bisognerebbe rendere tutta l’Isola un Parco Verde. Questo non deve essere una Riserva separata dalle aree antropizzate. Le Riserve hanno mostrato sempre grandi difficoltà ad esistere, infatti sono spesso abbandonate all’indifferenza della comunità, proprio per la mancanza di interazione permanente, e per i suoi risvolti antropologici negativi.
Se i fenomeni naturali hanno creato effetti disastrosi per lo sviluppo dell’isola d’Ischia, non meno devastanti sono gli effetti nella vicina area flegrea per le crisi prodotte dal Bradisisma, che genera anche disagi all’Isola per i collegamenti marittimi. La nuova crisi, iniziata nel 2011 e ancora attiva, ha investito in modo significativo anche la parte occidentale della città di Napoli.Così si è percepito che il fenomeno del Bradisismo non investe solo Pozzuoli e parte di Bacoli, ma tutta la conca flegrea e gli amministratori della città metropolitana, con i responsabili della sicurezza del territorio, non possono trascurare questo dato e procedere con un nuovo insediamento nell’area della ex Italsider,ritenendolo sicuro dagli effetti del Bradisismo. Basta rifarsi alla crisi attuale e allo scenario del Piano di Protezione Civile per l’evacuazione dell’area in caso di eruzione, che prevede inserita l’area della ex Italsider. Il progetto non può rientrare nella denominazione di rigenerazione del territorio perché non si è nella condizione di dover costruire nuovi edifici per sostituirnevecchi, fatiscenti e vulnerabili. L’area è occupata solo dai resti delle strutture e infrastrutture che erano al servizio delle attività industriali, che, quando saranno abbattute, renderanno libera un’area vasta di un territorio esposto alle manifestazioni del Bradisismo. Pertanto, in quest’area lo scopo dell’assetto territoriale non è più quello di stabilire nuove qualità o quantità edificatorie, bensìquello della riorganizzazione dell’ambiente naturale, sommerso e cancellato da un insediamento industriale devastante.