LE OPINIONI

IL COMMENTO “I care” di Vincenzo Di Meglio e il Liceo Buchner

Pochi giorni fa si è celebrata, in Italia, la ricorrenza dei 100 anni dalla nascita di Don Lorenzo Milani, figura controversa o ritenuta inattuale, sebbene tuttora stimata dal Presidente Mattarella, che ne ha tessuto gli elogi. In questa sede, mi interessa riprendere un motto che – grazie a lui – campeggiava su una parete della Casa di Barbiana : “I Care” (Prendo a cuore). E’ il motto che mi piace riprendere per il medico Vincenzo Di Meglio, che prendeva a cuore i suoi pazienti e il cui ricordo, celebrato nella Sala conferenze del Mudis, sabato 27 maggio, ha riscosso un successo di pubblico e partecipazione che ha colto di sorpresa il bravo giornalista-conduttore Mauro Giliberto, ma non Ciro Cenatiempo. Neanche io sono rimasto sorpreso del grande e unanime apprezzamento nei riguardi dell’oncologo Vincenzo Di Meglio, perché – per fortuna – quando un uomo muore, la gente mette sul piatto della bilancia il “peso” della persona. E Vincenzo Di Meglio aveva un peso professionale, etico e culturale di grande portata. Non mi dilungo a ripetere gli elogi che sono stati giustamente tributati al valoroso medico. Vorrei aggiungere qualcosa sul volumetto “Vincenzo Di Meglio, profeta della medicina narrativa”, a cura di Ciro Cenatiempo e qualcosa a proposito dei progetti scolastici futuri del Liceo Buchner. Chiariamo innanzi tutto perché la definizione – nel titolo del libro – di “profeta”, termine che è stato mutuato da un contributo della professoressa di Letteratura italiana contemporanea, Paola Villani. La parola “profeta” deriva dal greco pro-femì (parlare prima) predire. Profeta dunque nel senso di anticipatore di indirizzi della medicina che si sono successivamente affermati: la “medicina narrativa” ovvero la compartecipazione del medico alla sofferenza e all’angoscia del paziente. Dalle testimonianze dei pazienti raccolte e selezionate da chi, come la sociologa Lucia Esposito, ha curato il progetto scolastico ( nell’ambito dei PCTO) del Liceo Buchner, emerge un vero e proprio “caso di studio” ovvero quello della figura di un oncologo con straordinarie capacità diagnostiche precoci e, nel contempo, di una straordinaria empatia con i pazienti.

Francamente, non so fino a che punto la capacità di “condivisione” del dolore del medico Di Meglio fosse il frutto di una ricerca sistematica sulla medicina narrativa “ante litteram” o non piuttosto, e più semplicemente, un dato caratteriale del professionista. Ma questo alla fine conta poco. Ciò che davvero conta è che Vincenzo Di Meglio faceva “star meglio” i suoi pazienti già all’atto del colloquio e a prescindere dalle cure farmacologiche, chirurgiche e strumentali necessarie. E qui non posso non citare l’intervento, dalla sala, del professor Raffaele Perrone Capano, già docente di Diritto Finanziario presso l’Università degli Studi di Napoli, che ha rimarcato come fosse necessario completare la descrizione della figura di Vincenzo Di Meglio, sotto l’aspetto culturale e politico. Nel libro, tale aspetto viene citato in parte solo da Ciro Cenatiempo che, da ischitano, ben conosce l’impegno giovanile politico culturale di Di Meglio. Scrive Cenatiempo: “Da ragazzo già si distingueva per una particolare predisposizione all’approfondimento delle materie scolastiche, alla meditazione, all’analisi. Da adolescente, durante gli studi liceali, si lanciò con amore e feconda curiosità nelle vicende della Storia risorgimentale. Lesse con acume gli scritti di Adolfo Omodeo, Federico Chabod, Guido De Ruggiero; appassionato conoscitore del pensiero liberale di Piero Gobetti, Benedetto Croce e Luigi Einaudi”. Ecco il punto: la grande capacità compenetrativa del dottor Di Meglio con i suoi pazienti era il frutto di una vasta cultura liberale non liberista, che esaltava il valore dell’individuo, della persona, ognuno con caratteristiche esclusive ed identificative, ma nel rispetto della solidarietà umana e dell’importanza fondamentale del mettere in “relazione” uomo con uomo, persona con persona, paziente con medico e medico con paziente, in quanto nessuno, da solo, basta a se stesso. Se non inquadriamo il medico Di Meglio in questa cornice culturale, facciamo fatica a capirne le virtù emerse dalla registrazione delle testimonianze.

E veniamo al valore delle testimonianze. Lo dice bene Ciro Cenatiempo, nell’introduzione al libro, richiamando il filosofo della decostruzione Jacques Derrida, il quale pronosticava l’indissolubilità della scrittura, della “registrazione” in genere. Potrà sparire il libro, il giornale, ma non la scrittura intesa nel senso vasto di “registrazione”. E sul valore della testimonianza è mancato purtroppo l’intervento in conferenza del prof. Renato Di Nubila dell’Università di Padova che ha contribuito in maniera egregia alla scrittura del libro. Di Nubila, citando il filosofo francese Paul Ricoeur, ci ha reso edotti dell’importanza dell’ermeneutica. Ermeneutica deriva dal termine greco “hermeneus” originato – a sua volta – da Ermes, nunzio degli Dei, ovvero annunciare, attraverso la narrazione, il “senso”, l’interpretazione delle esistenze umane. Paul Ricoeur in “Tempo e Racconto” scrive: “ Raccontiamo delle storie perché le vite umane meritano di essere raccontate”.Precisa Ciro Cenatiempo, citando Gabriel Garcia Marquez: “La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. Ora, premesso tutto ciò, c’è un aspetto dell’evento al Mudis che mi lascia perplesso: la proposta lanciata dalla professoressa Villani e subito raccolta dalla sociologa Esposito, di svolgere un “secondo tempo” del progetto sulla ricerca sociale della medicina narrativa e del ruolo di medici empatici come Vincenzo Di Meglio. Questa seconda fase dovrebbe entrare nel vivo della professione e prospettare sbocchi concreti agli studenti nella professione. E’ vero che, nel gruppo degli studenti impegnati nella ricerca già conclusa, una delle ragazze è rimasta affascinata dai metodi del dottor Di Meglio e si iscriverà a Medicina, ma personalmente ho un’altra idea della funzione della Scuola, non in linea con le attuali tendenze pedagogiche: L’attuale indirizzo pedagogico della scuola è quello di una formazione troppo direttamente orientata allo sbocco lavorativo e non mi convince. Il successo dei metodi del dottor Di Meglio sono il risultato di una profonda cultura umanistica, su cui si poggiava una solida preparazione medica.

Pertanto, a mio avviso, hanno ragione quelle centinaia di docenti (tra cui il prof. Adolfo Scotto Di Luzio, professore ordinario di Storia della pedagogia e autore del libro “La scuola che vorrei”) che firmarono un documento in 7 punti di dissenso verso un indirizzo orientato a una stretta dipendenza scuola-lavoro. Se mi posso permettere, il prosieguo logico del progetto sociale già eseguito nell’ambito del PCTO non è l’aggancio pratico alla professione ma lo studio trasversale di tutte le materie umanistiche che rendono etiche e responsabili le professioni e i lavori in genere, Un PTOF serio (Piano triennale dell’Offerta Formativa) questo dovrebbe sancire. E’ bene, è cosa pregevole che si stia saldando un rapporto vivo tra Scuola e Società, che la Scuola – per dirla con termini cari a Papa Francesco – sia in “uscita”. Ma una cosa è interloquire con le varie espressioni della società e fuoriuscire dall’idea “Scuola=cattedrale nel deserto” altra cosa è ridurre la Scuola a “cinghia di trasmissione del mondo delle imprese o delle professioni”. Ma sono sicuro che non sono queste le intenzioni del pool socio didattico che ha lavorato al progetto “Vincenzo Dfi Meglio” e che ci sarà modo di fare le opportune riflessioni.

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