IL COMMENTO Ischia ha ancora un’identità? E ha valore per i turisti?

Da una serie di incontri che l’esperto catalano di Destination Management e Marketing, Ejarque, incaricato dal Comune d’Ischia per un Piano di Sviluppo Turistico, ha tenuto in questi ultimi mesi, con operatori economici e cittadini, è emerso un dubbio amletico, una divergenza di vedute tra chi, come ad esempio la ristoratrice Silvia D’Ambra, ritiene importante puntare, per lo sviluppo turistico, su una identità isolana (storica, economica, naturale-paesaggistica, termale, archeologica e perfino gastronomica) e chi, come Ejarque, ritiene invece che al turista non importa molto di quella che il residente considera identità della propria isola, ma importa ciò che l’isola offre in base alle proprie aspettative e alle proprie esigenze. In parole povere, secondo Ejarque, l’identità soddisfa e arricchisce culturalmente chi nell’isola ci vive e soddisfa meno chi ci viene per turismo. E’ pur vero che l’arricchimento identitario della cittadinanza predispone meglio all’accoglienza e, questa sì, interessa ai turisti, per cui l’identità ha effetti positivi sul turismo ma solo in via indiretta. Ma prima ancora di stabilire se c’è un nesso tra identità locale e ricaduta turistica, dobbiamo porci un altro quesito: siamo sicuri che l’isola, oggetto di sviluppo improvviso e rapido nei decenni passati, non seguito da un corrispondente progresso civile, possa ancora vantare un suo “genius loci”? Possiamo, ad esempio, ancora dire che Ischia ha una sua identità architettonica? Dopo che sono state consentite baracche, pseudo garage, pseudo gabbie per animali, cannucciate, teli verdi, protezioni cieche in ferro, a nascondiglio di brutture e improvvisazioni edilizie? Possiamo ancora dire che abbiamo un tessuto economico-sociale ben individuabile e storicamente consolidato? Eravamo l’isola degli agricoltori, dei pescatori e poi dei servizi turistici e termali. Oggi che cosa siamo?

Ristoratori di massa, tenutari di case vacanze e bed and breakfast, rosticcerie e friggitorie, albergatori di roulette (e meno male che, almeno nel Comune d’Ischia, stiamo ponendo un limite ai distributori automatici di bevande e snack) assomigliando, in ciò, a migliaia di località turistiche analoghe. E’ vero che esistono numerose Associazioni culturali che svolgono un’attività encomiabile, ma costituiscono pur sempre “isole” nel Mare Magnum del consumismo e dell’omologazione antropologica, oasi nella desertificazione sociale e morale. Posto questo doveroso quesito, possiamo passare a parlare di identità in maniera più approfondita e non riferita solo all’isola d’Ischia. Iniziamo da Pier Paolo Pasolini. Un po’ di tempo fa, su Il Corriere della Sera, Eugenio Capozzi, professore ordinario di Storia Contemporanea al Suor Orsola Benincasa di Napoli, ha scritto un importante articolo dal titolo “Pasolini e l’idea di dell’identità italiana”. Il prof. Capozzi citava alcuni versi da” Poesie mondane”: “Vengo dai ruderi, dalle chiese/ dalle pale d’altare, dai borghi/ abbandonati sugli Appennini o le Prealpi/ dove sono vissuti i fratelli”. Ecco l’identità italiana secondo Pasolini: coincidenti con la cultura contadina e popolare in via di estinzione, per l’avanzare del conformismo di massa e del consumismo. Dal Friuli a Roma, nella cui città andava sparendo la plebe metropolitana sotto i colpi sempre dell’omologazione di massa. In quella che Pasolini considerava una vera e propria involuzione antropologica veniva messa in forte discussione l’idea di “progresso inarrestabile”. Il progresso era smentito dall’avanzare di un’etica edonistica, di un soggettivismo privo di radici e di legami comunitari. Ma se Pasolini è il cantore della perdita di identità italiana, c’è chi maledice le identità. E’ il caso dello scrittore libanese, che scrive in francese, Amin Maalouf, il cui ultimo libro si chiama per l’appunto “ Identità assassine – La violenza e il bisogno di appartenenza”. Maalouf capovolge, rispetto a Pasolini, i termini della questione: avendo attraversato più Paesi e più culture, dal Libano alla Francia, dalla Turchia all’Egitto, ha sviluppato un’identità plurima e ha visto con favore un dialogo tra Oriente e Occidente, anche se poi è rimasto deluso dagli errori compiuti dall’uno e dall’altro mondo.

Malouf osserva che prima il mondo era diviso dalle ideologie ma che oggi è peggio, perché perlomeno le ideologie le sceglievi liberamente, adesso invece l’identità ti piove dall’alto, è del tutto casuale, dipende da dove nasci, in quale tempo, in quale luogo, in quale contesto familiare e sociale. Ma strettamente connesso all’idea di “identità” c’è il pensiero del “progresso”. Ha scritto, nel suo libro “Fragile” Francesco Monico, docente di Filosofia della Tecnica, che “l’idea di progresso” è nata con il Cristianesimo: la storia viene intesa come un procedere verso il meglio e la Natura diventa il prodotto della volontà di Dio che l’ha consegnata all’uomo affinché la domini. Ma tale idea, nel tempo moderno, si è infranta contro la fragilità del nostro mondo. Paradossalmente il progresso umano distrugge l’ambiente, esaspera il divario economico tra le persone e tra i paesi. Siamo in un mondo “fragile”, parola che deriva dal latino “fragilis” e dal verbo “frangere” e cioè “rompere”. Si spezza un equilibrio tra Uomo e Natura, talché dobbiamo rivedere il concetto di “ progresso”. Non è più l’uomo industriale che si aliena nella macchina e nel capitale ma è l’uomo che, anziché usare la tecnologia, si aliena in essa.

Amin Maalouf

La “mistica del progresso” intesa come inarrestabilità della tecnica e della tecnologia deve essere superata da una nuova visione dove uomini e donne si affrancano dalla schiavitù del progresso tecnologico inteso come fine e non come mezzo e si riconciliano con la Natura. E c’è un terzo aspetto, dopo l’identità e il progresso: l’individualismo. Scrive il filosofo Umberto Galimberti che “L’identità è un dono sociale, che si costruisce grazie ai riconoscimenti che ci giungono dagli altri”. Importante questo concetto. Galimberti lo dice in riferimento all’individuo ma può essere esteso anche all’identità di un paese. Non esiste un’identità pensata e vissuta a prescindere dagli altri (siano essi individui o paesi). E qui, a rafforzare la propria tesi, Galimberti ricorda che il termine “persona” deriva dal latino “per sé unum” mentre i Greci chiamavano l’individuo “ pròsopos” ovvero “ colui che sta di fronte al mio sguardo”. Sono i Greci che mettono l’uomo in relazione necessaria con gli altri uomini. E chiudo con un’altra citazione: il libro “Un tempo senza storia” dello storico Adriano Prosperi. Egli parla di “scomparsa del futuro” dove ormai è tutto in forse per la fragilità del mondo. Aggiunge anche che dallo spaesamento in cui siamo tutti precipitati, nasce il desiderio di “identità”. Ma l’identità non è altro che un’illusione necessaria. Per finire, siamo partiti da una situazione locale e da un confronto sull’utilità di un’identità locale ai fini turistici e siamo arrivati, con deferenza, a parlare dei massimi sistemi. E’ una forzatura? Un’esagerazione, una presunzione? Tanto più se espressa su un quotidiano locale? Sicuramente è così per coloro (e sono molti) che non amano analisi complesse, tuttavia è mia convinzione che “Ut minima solvere, maxima scire debes” per risolvere le cose minime occorre conoscere quelle massime.

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