LE OPINIONI

IL COMMENTO La manomissione delle parole

C’è un aspetto, nel dramma ucraino, che non è stato sufficientemente indagato: la manomissione delle parole. Solo pochi giorni prima che scoppiasse il dramma bellico, il quotidiano Repubblica aveva riproposto ai lettori l’acquisto del libro dello scrittore Gianrico Carofiglio, dal titolo “La nuova manomissione delle parole”. Carofiglio parla di “nuova” manomissione, in quanto nella prima edizione (2010) aveva scritto della manomissione delle parole ad opera di Berlusconi e del berlusconismo (si sa, i “peones” sono sempre copia mal riuscita dell’originale). Oggi, Carofiglio aggiorna la manomissione dopo l’avvento del populismo e l’amplificazione dei social. Non prevedeva, ovviamente, la guerra in Ucraina e gli sproloqui dello Zar sulla necessità di “denazificare” l’Ucraina, di conquistare l’Ucraina per combattere “l’antirussia” europea e mondiale. Parole deliranti, supportate da messaggi (anche cartoni animati per le scuole primarie) delle televisioni controllate che fanno passare concetti antieuropei, antiamericani, col ribaltamento dei ruoli e della verità, presentando “gli altri” come provocatori e minacciosi della sicurezza russa. Dice giustamente Carofiglio che “salvare le parole dalla loro manomissione oggi, significa essere cittadini liberi”. Rosa Luxemburgg diceva che chiamare le cose con il loro nome è un gesto rivoluzionario e il termine “manomissione”, nel diritto romano, ha un significato ambivalente: di danno alle parole ma anche di liberazione degli schiavi. Ciò vuol dire che possiamo controbattere la deformazione del linguaggio con il ripristino del significato autentico delle parole.

Le parole hanno un peso ed è per questo che, soprattutto di fronte ad eventi così tragici come la guerra in atto, dovremmo tutti “soppesarle” prima di spararle sui social con la stessa velocità e la stessa micidiale ricaduta dei missili a distanza sparati dai russi sulle città ucraine. Le parole possono fare molto male, ma quelle giuste – e nella giusta misura – possono vincere battaglie diplomatiche ma anche guerre combattute corpo a corpo. Quando, ad esempio, gli ucraini catturano giovani militari russi incolpevoli delle decisioni scellerate dei loro capi e li rifocillano, li tranquillizzano e consentono loro di contattare le mamme, hanno in realtà usato le parole nel senso giusto, toccando le corde del cuore. E questa non è retorica, è sentimento, è “umanità” di cui qualcuno ha smarrito completamente il senso. Gustavo Zagrebelsky ha detto: “il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica”. In un saggio del 1946 “La Politica e la lingua inglese”, George Orwell, scrittore spesso citato a sproposito da catastrofisti e nichilisti, si ribellava all’uso del linguaggio sempre più povero, fatto di similitudini deboli e di metafore stantìe. Ma non solo sciatteria e banalizzazione delle parole, quanto un deprecabile adattamento del linguaggio al sentire dominante, soprattutto sui social. Le parole vengono utilizzate e forgiate per la ricerca dei like,. Non è la parola che orienta i like ma sono i like che condizionano la parola. Eppure “ in principio era il Verbo”, il Logos. E’ l’incipit del Vangelo di Giovanni. E’ interessante, a tal proposito, l’interpretazione che Goethe, nel Faust, dà del Vangelo di Giovanni. Egli immagina che Faust, prima di incontrare Mefistofele, tentò di dare interpretazioni multiple dell’incipit del Vangelo di Giovanni. Immagina che il termine “das Wort” (la parola), potesse essere sostituita da “der Sinn” (il pensiero) o da “die Kraft” (l’energia) o ancora da “die Tat” (l’azione). Al che il dittatore Hitler, che pure non amava Goethe, ritenne subito che: “In principio era l’azione”.

C’è da stare sicuri che Putin la pensa esattamente come Hitler (e non è la sola cosa su cui convergono). Anche per lui l’azione viene prima di ogni altra cosa. Ma una volta derubricata la “Parola”, una volta arretrato il “Pensiero”, a cosa serve l’Azione fine a se stessa, senza un principio ispiratore? L’azione senza parola e senza pensiero conduce esattamente lì dove è arrivato Putin, all’invasione insensata e prepotente. Ma all’insensatezza dell’invasione possiamo contrapporre una parola breve, secca ma molto eloquente: No! Alla repressione, alla tirannia possiamo dire no, possiamo ribellarci. “No” stanno provando a dirlo in Ucraina, ma anche in Russia ( nonostante le dure repressioni). “No” lo sta dicendo l’Europa intera e buona parte del resto del mondo. Nel citato libro di Carofiglio, viene sviscerato il senso della parola “ribellione”. Alla repressione gli ucraini e i russi dissidenti contrappongono la ribellione. George Steiner e José Saramago hanno scelto “No” come prima parola di un ideale lessico necessario.

La poetessa Emily Dickinson ha definito il No la parola più urgente ed essenziale, la più selvaggia del vocabolario. Per Carofiglio il No non è mera negazione, può avere valore propositivo, costruttivo, creativo. Fenomenale, ad esempio, è il No del personaggio letterario Bartleby, scrivano magistralmente creato da Melville, che si oppone alla burocrazia ripetitiva e senza fantasia, per cui ad ogni domanda, risponde con un laconico “ preferisco di no”. Dovremmo tutti ribellarci (come ha preconizzato Albert Camus in “ Ribellarsi è giusto”) al conformarsi e appiattirsi su parole senza senso o dal senso distorto, che imperversano sui social e in molti contenitori informativi (?) televisivi. Dovremmo ribellarci a chi, alle parole creatrici e costruttive, contrappone l’azione muta e violenta. In principio era il Logos, la Parola, e affinché non venga cancellata dalla violenza dell’azione o dal conformismo che l’impoverisce e scarnifica, dobbiamo pronunciare la parola più breve, nitida, incontrovertibile: No!

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