LE OPINIONI

IL COMMENTO La Natura è complessità

DI GIUSEPPE LUONGO

Edgar Morin (Morin pseudonimo per Nahoum) ha combinato le scienze umane con la fisica rompendo i confini innalzati fra le due culture. Il tema della complessità è divenuto preminente (il lavoro sul Metodo (1977-2004), con l’interdisciplinarietà e l’assenza di ogni confine nelle scienze. La struttura del reale non è più data dall’ordine, ma dal disordine. Esso è una condizione che ci appare incerta, errata, caotica, casuale, imprevedibile, disorganizzata, ma l’idea di complessità giustifica e spiega il disordine. La spiegazione semplice è quella che può ridurre il fenomeno composto alle sue unità elementari e concepire l’insieme come somma delle caratteristiche delle unità (riduzionismo). Il problema della complessità è quello posto dai fenomeni non riducibili agli schemi semplici dell’osservatore. L’irriducibilità della complessità a sistema è causa del senso di impotenza di fronte a ciò che non si comprende, anche se vi sono elementi noti, ma ciò che resta al di fuori della nostra capacità è la comprensione di ciò che non ha limiti spaziali né temporali; questi li scopriamo solo a posteriori. Per ciò che riguarda l’osservazione si è passati dalla “certezza dell’ordine” (propria della filosofia classica) all’incertezza dell’ordine (illuminismo, relativismo). Ora con la “certezza del disordine” l’approccio è radicalmente nuovo; è necessario misurarsi sui processi fondati sul disordine, per ridurre la complessità del reale e comprenderla meglio. Abituati a tre secoli di pensiero positivo, con l’idea di futuro collegata a quella di progresso infinito, l’insicurezza lascia spazio al pessimismo e con esso alla “fine della storia” che cancella il progresso e rende inutile il progetto per il futuro. Questo muore con il verificarsi di un evento inatteso e così naufragano i piani di sviluppo con una visione del futuro atrofizzato e ripiegato sul presente.

Per superare i limiti dettati dal localismo è necessario “pensare globale”. I componenti di una comunità condividono il luogo del disastro e la finalità del loro progetto per il futuro è l’acquisizione di un saper-vivere come cittadinanza e della presa di coscienza della realtà nella quale si vive. Questa operazione è affidata agli educatori, educati al pensiero della complessità, i quali hanno una grande responsabilità lungo l’arduo percorso(formazione) dellaconoscenza. Un evento catastrofico che investe una comunità è di per sé stesso un passaggio naturale di crisi, ovvero di rottura tra il prima e il dopo nel sistema naturale che caratterizza il sito, ma genera anche una crisi nel sistema antropico. Per superare la crisi bisogna, innanzitutto, comprenderla, ma nella sua interpretazione emerge la contrapposizione tra due schieramenti: il primo ritiene che l’unica soluzione sia il ripristino dello statu quo ante; per il secondomette in evidenza il ritardo della comunità ad adeguarsi alle trasformazioni prodotte dalla globalità e ritengono necessario il superamento di una tale condizione. Per i sostenitori del cambiamento di paradigma bisogna affrontare un duplice tema: sicurezza della comunità e suo progresso sociale ed economico; entrambi caratterizzati dalla complessità. Su questi temi il famoso filosofo, sociologo e epistemologo Edgar Morin(n. 1921) negli anni ’70 del secolo scorso, dopo le crisi politico-culturale del ‘68 avvertì la necessità di proporre una teoria della crisi, la “crisologia”. Temo che tale teoria non sia stato uno strumento utilizzato nella gestione delle crisi ambientali nell’isola d’Ischia; il sapere parcellizzato è un ostacolo all’organizzazione di sistemi complessi perché questa necessita di rapporti reciproci che combinandosi producono un risultato superiore alla somma di quelli dei singoli componenti del sistema.

Una teoria della crisi si basa sulla sua eccezionalità e sul postulato che sia temporanea, compresa tra due periodi di stabilità che si definiscono di normalità. Questi periodi la Protezione Civile li definisce “periodi di pace”. Se la crisi perdurasse nel tempo, diventerebbe endemica, come mostrano i tempi lunghi della ricostruzione nella recente crisi a Casamicciola, dove il Piano di Ricostruzione predisposto dalla Regione è stato illustrato nell’Isola dopo oltre sette anni dall’evento sismico. In tal caso diventerebbe normalità lo stato di crisi e nessuna teoria sarebbe in grado di affrontarla, in quanto bisognerebbe districarsi da una crisi della crisi. Temo che questo sia il caso che si vive a Casamicciola e la comunità mostra di accettare questa condizione come mutamento normale che non porterà a nessun altro equilibrio, perché l’aspettativa della fine della crisi, divenuta indecisione e incertezza, rende penosa l’esistenza.

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