LE OPINIONI

IL COMMENTO La “passerella” dei dati ocse-pisa

DI MARIO SIRONI

Ad ogni pubblicazione dei risultati di una qualsiasi rilevazione sugli esiti scolastici ( OCSE-PISA, Invalsi, Eduscopio ecc ecc ) si innalza il lamento sul sistema scolastico che non funziona. Per qualche settimana i soliti editorialisti scrivono i soliti editoriali più o meno legati ai propri ricordi scolastici e con il solito rimpianto del bel tempo andato, quando si bocciava e quando non avevano avuto diritto di cittadinanza Don Milani e Tullio de Mauro. Ora  “l’ossessione valutativa” ha un credito diffuso. Si tende a considerare i risultati di qualsiasi indagine come la reale rappresentazione dello stato di cose, senza interrogarsi sulle modalità di raccolta dei dati né sul quadro di valori che presiede a qualsiasi valutazione.

Valutazione senza pedagogia
Sul tema della valutazione, in modo particolare quella sugli esiti degli apprendimenti e quella sulla “scuola” come sistema ( dove è indistinto il fare scuola con l’essere scuola e con l’edificio scuola ) , esiste una vasta letteratura scientifica spesso assai critica, ma che ha molto meno credito di un qualsiasi improvvisato commentatore. Quanti conoscono luminari pedagogici quali Calvani, Coggi, Cornoldi, Ianes, Guasti, Lucisano, Maragliano, Rivoltella, Vertecchi e Viganò o Lumbelli, Milani, Montessori e Visalberghi? Se poi le scienze pedagogiche sono neglette in ogni Università, le superficialità di analisi e commento si spiegano da sole.
L’assenza di una vera ed approfondita cultura della valutazione rende facile pubblicare le classifiche piuttosto che leggere dati col cervello in allerta e criticamente. Tutte le recenti indagini ci parlano dello stato comatoso dei livelli di istruzione complessivi di adulti e giovani.
Basta scorrere le pagine dell’ultimo rapporto Censis. Pochi laureati, frequenti abbandoni scolastici, bassi livelli di istruzione e di competenze tra i giovani e tra gli adulti: sono questi alcuni dei fattori di criticità cui il sistema educativo italiano è chia­mato a dare risposta, in particolare, con riferimento alla sua capacità di attrarre e coinvolgere le fasce di popolazione più deboli e meno attrezzate culturalmente ed econo­micamente.

Benchmarks di riferimento
Nel nostro Paese, a differenza che nel resto dell’Europa, la quo­ta di popolazione che si è fermata al solo primo ciclo d’istruzione è notevolmente più elevata non solo tra le classi d’età più anziane, ma anche tra le giovani generazioni. Se, infatti, per più della metà i 60-64enni italiani si sono fermati alla licenza media (il 52,1% a fronte del 31,6% nell’Unione europea a 28 Paesi), anche tra i 25-39enni ben il 26,4% non ha conseguito un titolo di studio superiore (un valore che nella media Ue si ferma al 16,3%). Nella fascia d’età 18-24 anni, immediatamente successiva a quella tipica del conseguimento del diploma di scuola secondaria su­periore o di una qualifica professionale iniziale, nel 2018 il 14,5% (quasi 600.000 persone) non possiede né il diploma né la qualifica, e non sta frequentando alcun percorso formativo. Un fenomeno, quello della precoce fuoriuscita dai circuiti formativi, che riguarda soprat­tutto i maschi (16,5%), i residenti nelle regioni meridionali (18,8%) e gli stranieri (37,6%). Soprattutto per coloro che possiedono bassi titoli di studio sono pochissime le opportunità per au­mentare le proprie conoscenze e competenze e farne manutenzione,: nel 2018 ha partecipato ad attività di apprendimento permanente appe­na l’8,1% della popolazione 25-64enne, valore che però scende a un irrilevante 2,0% tra coloro che hanno al massimo la licenza media, mentre raggiunge quota 18,7% tra i laureati.

Nel 2018, con riferimento ai quindicenni (più o meno in corrispondenza con la seconda classe della secondaria di II grado ) l’Italia ha ottenuto un punteggio inferiore alla media OCSE in lettura e scienze e in linea con la media OCSE in matematica. La prestazione media dell’Italia è diminuita, dopo il 2012, in lettura e in scienze, mentre si è mantenuta stabile (e al di sopra del livello osservato nel 2003 e 2006) in matematica. Il rendimento in lettura è diminuito in particolare tra le ragazze (ed è rimasto stabile tra i ragazzi). Il rendimento in scienze è diminuito in modo più marcato tra gli studenti con i risultati più elevati, in misura simile sia per i ragazzi sia per le ragazze. Questi dati non si differenziano di molto rispetto a quelli precedenti. I nostri quindicenni stanno, dunque, più o meno a metà classifica su 68 Paesi, per la lettura: circa il 23% ha basse competenze in comprensione di un testo. Il 77% del campione italiano raggiunge il livello minimo di “competenza” in lettura, mentre la percentuale l’“uno su venti”, che si legge di qua e di là, fa riferimento a lettori e lettrici eccellenti. Per gli adulti la percentuale è uno su cento e il campione che raggiunge il livello minimo di competenza è meno della metà.  Dire: “i nostri quindicenni non sanno leggere” è una semplificazione non veritiera. Mentre è abbastanza vicino al vero dire che i nostri adulti non sanno leggere, vedi i Piaac. A differenza che nell’indagine Ocse Pisa, dove in lettura i nostri quindicenni sono più o meno a metà classifica, l’indagine Ocse Piaac, che rileva le competenze in comprensione del testo della popolazione adulta, rileva che siamo ultimi. Questo dato dovrebbe farci rifletter su una questione serissima e per nulla considerata, perché, mentre in tutti i Paesi abbiamo il life long learning, ovvero formazione permanente e continua, in Italia non esiste l’apprendimento permanente e i dati sull’analfabetismo funzionale della popolazione adulta sono davvero gravi e potrebbero riguardare insospettabili professionisti, che, però, non aprono un libro da venti anni.

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Un problema politico
Per tornare all’Ocse e ai quindicenni, il rapporto, anche questa volta, è indicativo non tanto per i ritardi come Paese, quanto per gli enormi divari del nostro sistema d’istruzione (tra nord e sud, tra centri e periferie, tra ricchi e poveri, tra tipi di scuole, licei, istituti tecnici e professionale), tenuto conto che a ciascuno di questi divari corrispondono cause, sempre uguali, sempre immobili nel tempo : investimento in istruzione scarso, diseguale e inadeguato.

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Sostanzialmente rimane indietro chi è povero e al Sud ci sono più poveri. I bimbi poveri non sono “scemi” o svogliati, ma sono semplicemente discriminati, dallo Stato, dalle amministrazioni, dalla politica. E come si abbatte questo condizionamento che cade come una tegola sulla testa dei ceti meno abbienti? Con azioni di sistema e investimenti strutturali. Dando di più a chi ha di meno. Le divisioni sociali sono legate ai territori, alle connotazioni sociali dei luoghi di residenza e, quindi, le scuole riflettono in parte la composizione sociale dei territori in cui sono insediate. Ma solo in parte. Perché le scuole si caratterizzano per un’omogeneità di classe che è ancor più rilevante di quella che è possibile individuare a livello territoriale. I processi di segregazione sociale a livello scolastico vengono accelerati e rafforzati dalle scelte delle famiglie. Quando si tratta di scegliere a quale scuola iscrivere i loro figli, le famiglie tendono a confermare i processi che amplificano la segregazione sociale a livello scolastico. Spesso, anzi quasi sempre, queste scelte di segregazione sono avallate se non spinte dagli stessi docenti, in modo particolare quelli della classe terminale della secondaria di I grado.

Nord e Sud

Per capire i risultati OCSE PISA così come anche i risultati Invalsi basterebbe leggere il recente Rapporto dello Svimez non a caso intitolato Il mezzogiorno nella nuova geografia europea della diseguaglianza. A chi è povero diamo di meno: meno nidi, meno scuola, zero tempo pieno, zero recupero scolastico Tanto i poveri non se ne lamentano. Poi, però, ce li ritroviamo a rovinare le classifiche degli Ocse Pisa.

Basta guardare le mappe di distribuzione di nidi e di tempo pieno e sovrapporle alle mappe dei rendimenti scolastici e delle diseguaglianze economiche per area geografica. Le percentuali di posti nido al Sud sono 5/8% rispetto a regioni come l’Emilia Romagna dove si raggiunge quasi il 50%. Eppure, proprio l’Ocse ci dice che gli investimenti a maggior ritorno per uno Stato sono quelli compiuti sul capitale umano e quanto più sono precoci tanto più sono efficaci. Invece al Sud niente nidi e nemmeno tempo pieno: al sud il tempo pieno è per il 4% dei bambini, in certe aree del Nord anche per il 75% dei bambini. Non stupiamoci, quindi, del risultato. E sempre dal rapporto Svimez si rileva che la quota dell’85% dei giovani tra i 20 e i 24 anni con almeno un diploma di scuola secondaria superiore è stato pienamente raggiunto nelle regioni del Centro-Nord, mentre è ancora distante per quelle del Mezzogiorno. Facendo riferimento alla più diffusa misura di dispersione scolastica a livello internazionale, gli «early leavers from education and training (ELET)», la percentuale di giovani che abbandona il sistema formativo è scesa, a livello nazionale, da valori vicini al 20% nel 2008 al 14,5% nel 2018, valore, tuttavia ancora lontano rispetto al target di Europa 2020 (10%) e dalla media europea (10,6%). L’analisi a livello territoriale conferma i problemi delle regioni meridionali e, soprattutto, insulari. Il Mezzogiorno presenta tassi di abbandono assai più elevati: nel 2018, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, gli early leavers meridionali erano il 18,8% a fronte dell’11,7% delle regioni del Centro-Nord. Valori più elevati si registrano per i maschi (16,6% in Italia, 21,5% nel Mezzogiorno). Peraltro, se nel Centro-Nord il mancato proseguimento degli studi si accompagna a un numero più consistente di giovani occupati, pur con basso livello di istruzione, nelle regioni meridionali gli occupati usciti precocemente dagli studi sono una minoranza (21% a fronte del 46% del CentroNord nel 2018). Ma confrontiamo anche i dati dell’edilizia scolastica: al Sud si colloca la maggior parte degli edifici che richiedono manutenzione urgente; invece, il patrimonio edilizio scolastico al Centro e nel Settentrione è mediamente più controllato, sicuro e manotenuto di quello del Meridione e delle Isole. Gli enti locali dichiarano la necessità di interventi di manutenzione urgenti per il 43,6% del totale nazionale, dato simile rispetto allo scorso anno, che aumenta nei territori del Sud (56% degli edifici che necessitano di manutenzione urgente) e nelle Isole (49,9%). Preoccupante è la situazione dal punto di vista della sicurezza, perché ai minori controlli corrisponde una maggiore fragilità sismica del territorio. Al Sud 3 scuole su 4 sono in area a rischio sismico. In Sicilia la situazione è anche peggiore: quasi il 98,4%.

Conclusioni
Non servono, dunque, titoli generalmente fuorvianti, densi di inesattezze, sul crollo del sistema scolastico, strillati ogni sei mesi, perché la situazione non è crollata, è ossessivamente uguale a sempre. Serve un sistema finalmente riequilibrato ed equo sull’offerta dei nidi e del tempo pieno. Serve formare docenti e selezionarli perché facciano i docenti. Servono interventi programmati e strutturali di edilizia scolastica per rendere le scuole non solo sicure per chi le frequenta ma soprattutto ambienti di apprendimento innovativi e stimolanti, per ogni grado di istruzione. Innovazione, ricerca e investimenti nell’istruzione sono il segno di un paese in via di sviluppo, in crescita. Confessiamocelo con onestà intellettuale: non è vero che i quindicenni di oggi non sanno leggere; è, invece, vero che ci sono dei divari e che i giovani ci restituiscono quasi matematicamente quanto offriamo in termini di investimenti e di opportunità. Ed il tema dei risultati delle valutazioni delle Ocse Pisa in Italia, come di qualsiasi altra valutazione, andrebbe declinato insieme alla lotta contro le diseguaglianze. La lotta per le “classi” è ancora oggi una lotta di classe e di “caste”.

  • DIRIGENTE SCOLASTICO IPS V. TELESE, ISCHIA

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