LE OPINIONI

IL COMMENTO La Scuola della Mandra

DI ELENA WHITEHEAD

Era bello, ogni giorno, andare in frotte verso la scuola. Chi andava più veloce, chi indugiava, chi raccontava, ma tutti scendevano lieti verso la meta non molto lontana. Ragazze romantiche, si soffermavano a guardare i campi a ridosso della chiesa di S. Antonio, non ancora ricoperti dalle costruzioni che oggi vediamo. Lì c’erano già, ai primi di gennaio, distese di campanellini gialli che ci aprivano il cuore alla primavera, mentre il mandorlo cominciava ad ingrossare le gemme. In tanta bellezza, si udiva qualche voce intonare: “Amore ritorna, le colline sono in fiore”, oppure: “Pensiamoci ogni sera al tramontar del sole.”, ed ancora: “Dio, come ti amo, non è possibile avere tra le braccia tanta felicità. Era quella una cordata di allegria, anche se qualche saputello non trascurava di dire in tono malizioso: “studere, studere, post mortem quid valere?” oppure “meglio un asino vivo che un dottore morto”, ed ancora “la filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale il mondo rimane tale e quale”.

Intanto, il canto divenuto corale, prevaleva sulle insinuazioni nefaste. Non era lunga la strada, ma ci sembrava interminabile per tutto ciò che riuscivamo a dire e a fare, compreso una sosta dal tabaccaio ed un’altra dal salumiere. Con i nostri grembiuli neri anche a gennaio, solo in parte coperti da giacche e cappotti sbottonati, sembravamo stormi di rondini che planavano verso il mare. Eravamo forti ed invulnerabili. Dovevano ancora arrivare indefinite stagioni tutte per noi. In quei giorni, parlare di un quarantenne, significava indicare una persona distante anni luce dalla nostra età. Erano tanti gli argomenti di cui si diceva, in una sosta, un’allusione ed uno sguardo. Il tempo appariva dilatato: c’era spazio per dirsi “tutto”, per parlare di chi ci piaceva e a chi noi sembravamo piacere. Si aveva l’impressione di vivere, in una rivisitazione dell’Eden, agli inizi del mondo. Tutto ciò che era grigio, opaco, insignificante, apparteneva agli altri. Noi eravamo “I Giovani”. Nostro era il futuro che avanzava. Varcata la soglia, la scuola si offriva con i suoi ambienti ristretti che davano un senso di intimità familiare. Essa era unica al mondo con i balconi e le finestre sulla singolarità del paesaggio. Nel piccolo ingresso e negli stretti corridoi, si sostava un po’ a parlare, a scambiarsi sorrisi, a sentire il profumo delle guance rasate di fresco, mentre dalle giacche esalava l’odore della sigaretta fumata per strada, conferendoci l’emozione di essere di fronte alla quinta essenza della felicità.

Per noi che eravamo “matricole”, i ragazzi del corridoio erano tutti più grandi dei nostri compagni di classe che avevano ancora nei volti e nella voce l’aspetto infantile. Essi parlavano e noi, con sguardo perduto, ascoltavamo senza capire, abbozzando un sorriso. L’eloquio era fermo. Il cuore batteva confuso. Non c’era parola che poteva supplire al silenzio: eravamo davanti alle inesplorate fattezze della virilità! Successivamente, nella sacralità di quei luoghi è sorto un ristorante dove mi ero sempre proposta di andare, ma che fino ad oggi, non ho mai visitato. Ho avuto, invece, modo di insegnare nell’attigua ex pensione “Altona”, già esistente all’epoca e con gioia immensa sona entrata nel vicoletto di un tempo. Lì, tutto era come allora a cominciare dalla tinteggiatura scolorita e scrostata che credo sia sempre quella, senza ritocchi. All’ingresso delle scale, c’era ancora il nespolo, un po’ rinsecchito. Guardavo, ma non volevo infrangere la magia dei ricordi. Tuttavia, un bel giorno, mi sono avvicinata a quello che era il nostro ingresso ed ho sentito voci di persone che preparavano da mangiare. Mi sono allontanata, in silenzio, dicendo tra la commozione che saliva: “ho trovato quei luoghi, ma non ho ritrovato quei giorni”. Invece, mi sbagliavo! Il mio era stato un vano cercare, perché essi sussistono dentro di noi con quella serenità che soltanto il ricordo sa dare. Sono un’isola felice nei marosi della vita. Lì, possiamo ancora vedere quei paesi alle spalle del Castello che al crepuscolo apparivano trapuntati di luci quasi un invito ad andarvi nei giorni futuri.

Liberamente, correre sulla spiaggia, giocare a pallone, sentire le voci dei detenuti che ci chiamavano “signora maestra”. Vivere le stagioni nei movimenti del mare, gareggiare sulla sabbia bagnata, usare il nostro alfabeta segreto. Rivedere la professoressa di greco con le sue “messe” e sentirci ancora chiamare “Eurialo e Niso”.

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