LE OPINIONI

IL COMMENTO La verità, vi prego, sulla pandemia

DI LELLO MONTUORI

Secondo il sito di informazione dell’Agenzia italiana, già nel Piano italiano multifase per una pandemia influenzale, pubblicato nel 2002. precedente al Piano pandemico del 2006 rimasto, a quanto pare, ‘confermato’ e non ‘aggiornato’ fino allo scoppio della pandemia da Sars Cov 2 nel 2020, si ipotizzava un possibile contagio globale nell’arco temporale del decennio successivo. Il documento è agli atti anche dell’inchiesta della Procura di Bergamo che indaga su possibili responsabilità di Governi e Regioni nel non avere evitato che la strage assumesse i contorni che ha avuto. Nel piano, ci si poneva la domanda su quando ci sarebbe stato un nuovo contagio globale e la risposta era: “Gli intervalli di tempo intercorsi tra le precedenti pandemie hanno oscillato tra gli 11 e i 42 anni, senza un andamento definito. L’ultima pandemia è avvenuta nel 1968/1969”. “Non è possibile prevedere né il momento, né il preciso impatto di una futura pandemia – era la premessa -.  La severità della malattia causata da un nuovo ceppo virale, la rapidità della sua diffusione e i gruppi maggiormente suscettibili nella popolazione sono tutti fattori ignoti. Tuttavia, ai fini della pianificazione, l’analisi delle precedenti pandemie può fornire informazioni preziose sulle possibili dimensioni dell’impatto”.

Il documento secondo l’Agenzia italiana, appare ‘profetico’ anche in altri passaggi, come questo: “Le modalità di disseminazione geografica di una pandemia seguono l’evoluzione dei mezzi di comunicazione. Questo spiega perché le pandemie più recenti hanno fatto il giro del mondo più rapidamente delle precedenti. La rapidità di tale disseminazione potrebbe far credere che in caso di pandemia influenzale non ci sarà il tempo necessario per prendere le necessarie misure preventive e in particolare per l’allestimento di un vaccino monovalente. Tipicamente i nuovi virus influenzali sono comparsi in Estremo Oriente e di lì si sono diffusi nel resto del mondo”. Nel piano si legge anche i “medici di famiglia costituiscono uno degli elementi fondamentali della rete assistenziale che dovrà costituirsi per garantire un’efficace assistenza alla popolazione”. Ed “é impensabile che le strutture pubbliche o private possano garantire da sole una efficace assistenza. Ad essi compete, con la rete dei medici sentinella che si sta costituendo in tutte le Regioni, l’identificazione precoce dei primi focolai di infezione al fine di consentire l’attuazione tempestiva delle misure di intervento previste nelle prime fasi della pandemia. Sarà loro cura inoltre di identificare preventivamente i soggetti a rischio di maggiori complicanze sui quali si dovrà intervenire con la vaccinazione” e a loro, queste le indicazioni del piano, “spetterà il compito di contribuire a ridurre l’allarme della popolazione consigliando i pazienti e adottando tutti gli interventi sanitari che permettano di ridurre al minimo i ricoveri ospedalieri, che dovranno essere riservati solo i casi più gravi”.

Parole profetiche che evidenziano innegabili responsabilità politiche e una inenarrabile sciatteria burocratica di tutti i soggetti deputati, in particolare a partire dal 2013”, se raffrontata con la professionalità che emerge dalla lettura del Piano influenzale datato 2002 e poi di quello pandemico del 2006. Ma non si poteva fin da marzo scorso, avvertire gli italiani che la pandemia – come tutte le pandemie globali nella storia moderna – ci avrebbe accompagnato per almeno un paio d’anni, magari con alti e bassi, scomparendo e ricomparendo all’improvviso con picchi e saturazioni delle terapie intensive, morti, recrudescenze e sparizioni, anziché farci credere che due mesi tappati in casa denunciando i runner che passavano davanti alle nostre finestre, ci avrebbero liberati dal virus in men che non si dica, sicché poi tutti saremmo potuti tornare ai nostri comodi? Ma si possono ancora sentire ad un anno esatto dalla sua diffusione, amministratori o persino esperti che invocano ancora oggi ‘un mese o due di lockdown totale fatto bene così ci togliamo il pensiero e riprendiamo con le nostre vite normali’? Come se la pandemia fosse un dente cariato da estirpare, che prima te lo togli meglio è? Ma si può fondatamente ipotizzare senza essere accusati di negazionismo, che i due mesi di chiusura totale di marzo e aprile scorso, che hanno messo economicamente in ginocchio il paese, forse si sono rivelati totalmente o quasi inutili ai fini del contenimento della pandemia nell’arco del biennio di proiezione della sua diffusione? Che è passato un anno e stiamo ancora qua cercando di convivere col virus che probabilmente ci accompagnerà ancora per un altro anno, nonostante il vaccino e le nostre sacrosante misure di distanziamento e i d.p.i.?

Ma si può ipotizzare, senza passare per irresponsabili, che forse è stato inutile chiudere le scuole e che dovevamo predisporci fin dall’anno scorso, a convivere col virus per almeno un paio d’anni, senza mai chiuderle del tutto, nemmeno per un giorno, limitandoci a controllare alunni ed insegnanti dopo l’insorgere di un caso in una classe e continuare a far andare i bambini a scuola, visto che non si può pensare di chiuderle davvero per due anni? Ma si può ipotizzare adesso, scrivendolo in un piano che abbia vagamente qualcosa di scientifico, che l’unico sistema per sopravvivere è un continuo stop and go, per tenere sotto controllo il più possibile il numero dei contagiati e nel contempo salvare il salvabile di ciò che resta delle attività produttive, commerciali, delle agenzie educative, falcidiate anche dagli errori drammatici nella gestione della prima ondata della pandemia? Ma si può dire, senza passare per irresponsabili, che la scorsa estate con i reparti COVID vuoti e le terapie intensive ritornate stabili, si è fatto bene anzi benissimo, a dare un po’ di respiro alle attività commerciali e turistiche, molte delle quali hanno potuto affrontare un altro inverno, e che invece il loro sacrificio prolungato anche all’estate, si sarebbe rivelato inutilissimo se fossero rimasti chiusi con un virus apparentemente dormiente e comunque non più in grado di nuocere agli italiani mentre erano al mare e sulla spiaggia?

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Ma i dati della realtà empirica contano ancora qualcosa per la scienza o bisogna per forza accreditare la tesi della irresponsabilità collettiva ad ogni costo per giustificare la ripresa del contagio a metà ottobre? Gli italiani come tutti gli abitanti del pianeta avevano diritto alla verità fin da subito. E o almeno fin da quando il virus ha assunto la dimensione pandemica mondiale. E invece ancora oggi continuano a ricevere informazioni contraddittorie allarmistiche rassicuranti o apocalittiche, assolutamente non scientifiche e affidate al virologo di turno che finisce col rendere più confuso il quadro di riferimento disincentivando magari comportamenti socialmente responsabili. Perché avere un Piano e programmare vuol dire stabilire in un atto programmatorio quali misure si adotteranno nell’arco temporale considerato di fronte alle evidenze e poi adottarle esattamente così come sono state programmate, altro che rimettersi di volta in volta alle paure e all’idea di precauzione che ciascun governatore o ciascun sindaco, o ciascun dirigente scolastico, hanno dei propri compiti e poteri. L’Italia si conferma, invece, un paese all’avventura che non ha mai creduto ai piani, da quelli regolatori, urbanistici, paesaggistici, di protezione civile e ora pandemici. Perché la programmazione comporta, da sempre, una auto limitazione assoluta dei poteri di intervento delle autorità pubbliche alle quali invece, dal centro alla periferia, piace molto governare le emergenze il più delle volte facendo ricorso a poteri straordinari e a rimedi extra ordinem.

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