LE OPINIONI

IL COMMENTO La vita oltre la siepe

di Giorgio Di Dio

C’è un’immagine che dovremmo avere tutti impressa: Leopardi, a Recanati, davanti a una siepe che gli chiude il panorama. Non vede nulla: nessun orizzonte, nessuna prospettiva. Eppure, proprio da quell’ostacolo apparentemente invalicabile, nasce il suo volo verso l’infinito. Immaginare oltre i confini, trasformare ciò che blocca in ciò che apre: questo è il gesto poetico e umano che compie. Leopardi non vede con gli occhi, ma con quella forza nascosta che chiamiamo immaginazione. Quel limite, che sembrava porre fine al mondo, diventa un varco verso l’altrove. E allora la vera domanda non è “che cosa guardi”, ma: “che cosa riesci a vedere quando davanti non hai più nulla”. Oggi più che mai abbiamo bisogno dello stesso coraggio, della stessa ostinazione visionaria. Viviamo in un’epoca in cui tutto può essere misurato, ma quasi nulla ha più peso. Si contano passi, battiti, ore di sonno, ma si smette di dare valore a ciò che davvero sostiene l’esistenza.

È qui che s’insinua una domanda inevitabile: “Hai avuto dalla vita quello che volevi davvero?”. Non è uno slogan motivazionale, non è la frase di un’azienda sul suo manifesto. È un colpo di piccone che spezza il cemento delle abitudini. Non ti chiede quanti follower possiedi né quale titolo accademico puoi esibire. Ti mette davanti a una verità elementare, eppure terribile: “Hai vissuto come volevi?”. In un tempo ossessionato dal calcolo di tutto – calorie, passi, metri percorsi – quella voce diventa una fenditura nell’asfalto e costringe a guardare dentro, per capire se, sotto la superficie, esiste ancora un’anima vigile. Abbiamo trasformato l’esistenza in un elenco da spuntare: laurea, lavoro, relazione, auto, casa, pensione. Come se la vita fosse un foglio Excel da compilare. Ma vivere non è riempire caselle con barre colorate. La vita, quella autentica, vibrante e imperfetta, non ha un piano marketing né un bilancio trimestrale: è un sentiero al buio, tracciato dalla fede cieca di chi non vuole più limitarsi a sopravvivere, ma cominciare finalmente a vivere.

Il contrario di vivere non è morire: è dimenticare perché si vive. Abbiamo imparato a vergognarci della fragilità, a nascondere le crepe con filtri e faccine sorridenti. Ma è proprio lì che passa l’aria. È lì che l’anima respira, nell’imperfezione che graffia le giornate. Guai a guarire troppo in fretta dalla nostra incompiutezza: rischiamo di anestetizzarci, di diventare zombi emotivi che corrono da uno stimolo all’altro per riempire il vuoto. Se non accettiamo il disequilibrio, se non ci lasciamo bruciare dal desiderio che non trova casa, saremo perfetti gusci vuoti. Viviamo in un tempo senza spartito. Ogni incontro è un duello improvvisato, una jam session in cui la nota stonata diventa parte della melodia. Non servono solo esperti con grafici e statistiche: servono visionari, artisti, folli che vedono un mondo laddove gli altri intravedono solo una frana.

Abbiamo scambiato il cinismo per intelligenza, l’indifferenza per lucidità. Ma il cinismo non è acutezza: è solo paura ben vestita. Oggi il vero atto rivoluzionario è restare sensibili, credere ancora che qualcosa di sorprendente possa accadere, correre giù per le scale solo per il gusto di sentire il fiato corto. Non è ingenuità: è una scelta di resistenza contro il sonno emotivo. E torniamo a quella domanda: “Hai avuto dalla vita quello che volevi davvero?”. Forse non lo sappiamo. Forse non dobbiamo nemmeno saperlo. Ci basta accettare che ogni giorno sia un ingresso, una linea di confine che possiamo varcare. Non serve avere un piano perfetto, basta un desiderio vivo, una scintilla minima. È una domanda che non parla di titoli, fatturati, successi. Parla di te. Delle tue notti insonni, dei tuoi abbracci, delle volte che hai avuto il coraggio di restare quando tutti scappavano. Chiede: hai amato? Hai sentito? Hai vissuto davvero o solo fatto finta? Viviamo drogati di efficienza, sedati dal culto della performance. Ma nessuna app ti insegna come restare umano. Nessun tutorial ti prepara a sopportare il vuoto. E allora serve una rivoluzione silenziosa: imparare di nuovo a desiderare. A sentire l’inquietudine non come un fastidio, ma come una bussola che punta verso il possibile.

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Non serve essere ottimisti. Serve gente che guarda un muro e ci vede una finestra. Serve chi crede ancora che dai detriti del disincanto possa nascere una cattedrale. Serve arte. Serve visione. Serve quella follia infantile e sacra di chi costruisce castelli anche quando ha solo sabbia tra le dita. Perché la vita non è un progetto da completare. È una jam session. Si sbaglia, si inciampa, si ride, si piange. Ma si suona. E ogni errore, se ascoltato, può diventare armonia. Il cinismo va di moda. Passa per intelligenza, ma è solo paura ben vestita. La vera ribellione, oggi, è lasciarsi ancora stupire. È avere la forza di dire “nonostante tutto, io ci credo ancora”. Credo nell’amore. Nella gentilezza. In una risata che esplode senza motivo. In una mano tesa quando nessuno guarda. Chi resta sensibile è un sovversivo. Chi si commuove è un guerriero disarmato. Ma potente. Ogni giorno, allora, diventa un bivio. Una soglia da attraversare. Un’occasione per chiedersi, prima che sia troppo tardi: “Ci sto mettendo dentro davvero tutto quello che ho?”. Non perfezione. Non successo. Ma presenza. Cuore. Coraggio. Non serve avere tutte le risposte. Serve solo non smettere di farsi domande. Serve dire, anche con la voce rotta: “Non so dove sto andando, ma non voglio restare fermo”. Perché la vera alternativa alla vita non è la morte. È l’abitudine. È il compromesso al ribasso. È dimenticare perché si è cominciato a camminare. E allora sì, guardiamo quella domanda negli occhi. Scriviamola sullo specchio, sulle mani, sul cuore: “Hai avuto dalla vita quello che volevi davvero?”. Se la risposta è no, non è finita. Si può sempre ricominciare. Perché la vita non chiede perfezione. Chiede presenza. Chiede verità. Chiede, semplicemente, che tu ci sia. Con tutto ciò che sei: ferite incluse, sogni compresi, tentativi sbilenchi e improvvisazioni jazz. Perché alla fine non ci chiediamo se siamo stati vincenti o impeccabili, ma se siamo stati presenti davvero. Con la nostra goffaggine e con tutte le nostre rinascite. E magari, un giorno, avremo il coraggio di rispondere senza inchinarci ai rimpianti: “Sì. Nonostante tutto, sì.”

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