LE OPINIONI

IL COMMENTO L’insostenibile leggerezza dell’“essere bulli”

DI LUIGI DELLA MONICA

Come ho già sostenuto in passato nei miei scritti, ci troviamo in un periodo socialmente molto complesso ed enigmatico. L’umanità è ormai consapevole, a mezzo degli strumenti di comunicazione di massa (quotidiani cartacei, online, whastapp, face book, twitter, instagram, telegiornali tv e radio) , a mezzo della didattica scolastica, che i fenomeni sub culturali totalitari di destra e di sinistra sono forieri di crimini comuni, di torture, di genocidi e di involuzione sociale. Eppure ci sono ancora emuli, isolati deficienti che per uscire dal proprio anonimato compiono gesti immondi che pregiudicheranno per sempre la loro vita. Potrei fare l’esempio, in una breve disamina degli anni ’70, delle stragi pianificate e praticate dai N.A.R. di matrice veterofascista, ma dall’altro presunto lato, come il rovescio di una stessa medaglia, vi sono state le brutalità dei brigatisti sedicenti rossi che hanno portato lo Stato a reagire energicamente ed efficacemente nella repressione.

Da un punto di vista criminologico, i giovani rei di aver distrutto le vite delle loro vittime, dei parenti e quella dei propri familiari, agivano con il proposito di giustificare la violenza crudele per sovvertire l’ordine democratico, che ai loro occhi ed ai loro cuori pareva viceversa improntato alla “Ingiustizia” sociale. Tutto questo avveniva durante la distruzione implosiva di altri giovani, che scegliendo lo slogan radical chic del “paece and love” professato da John Lennon, in contrapposizione alla guerra del Viet Nam, o ancora nelle perversioni del movimento di quel tale Charles Manson che istigò l’omicidio di Sharon Tate, anziché far parte della società attiva per cambiarla in meglio, se ne isolavano, spesso morendo di overdose, oppure distruggendo le loro vite per una somma incalcolabile di crimini comuni, come furti, truffe, ubriachezza molesta, o ancora atti osceni in luogo pubblico. Prima di loro, ci sono stati i nostri nonni che soffrendo in prima persona ci hanno donato il benessere e l’opulenza che da giovani non sapevano nemmeno dove albergassero. Per superare tutte queste aberrazioni i poteri forti, politici ed imprenditoriali, confezionarono il mito degli anni ’80, in cui i c.d. yuppies, ragazzi appena venticinquenni, che, nel settore immobiliare oppure finanziario, in pochi anni crearono delle fortune, villa con piscina, ferrarino oppure colf di colore – mi si passi la metafora solo per licenza narrativa, non certo per inneggiare a presunte differenze etniche o razziali.

Questo periodo di felicità collettiva, dove tutte le classi sociali e produttive godevano di uno standard minimo di benessere fisico e morale, ha accarezzato le fantasie di tutti noi, che ancora ingenuamente voliamo con la mente ad una speranza che quell’epoca possa rivivere. Arriviamo al febbraio 1992 allorquando un pool di giovani magistrati fanno tremare l’Italia ed il “potere” a suon di manette e di arresti eccellenti. Il c.d. effetto Di Pietro generò un impulso fortissimo nella società italiana anagraficamente di età vicino ai 18\20 anni di voler diventare uomini di legge, al fine di riformare e migliorare il Mondo. Non si dimentichi che la Repubblica aveva un Ministro della Giustizia illuminato, che viaggiava a braccetto con il Grande dott. Falcone, un ragazzo di modeste origini, proveniente da un quartiere popolare di Palermo, che dapprima servendo lo Stato da militare – era stato Uff.le di Marina – ha inteso consapevolmente in seguito rinunciare ad una vita normale, per una lotta nobile e sistematica al cancro sociale della mafia. In questo modello di vita lo seguiva il Grande dott. Borsellino, amico proveniente dallo stesso quartiere. Vorrei inventare il lieto fine, così come faccio per far sorridere mio figlio nel raccontare una favola, ma l’epilogo drammatico è noto a tutti.

Ne derivò uno stato di indignazione generale, per cui i giovani affollavano i concorsi nelle Forze dell’Ordine, nella Pubblica Amministrazione e nella Magistratura, perché molti, moltissimi avvertivano l’esigenza di fare la propria parte. A tal uopo, posso trovare occasione per censurare severamente la riforma della leva volontaria, occorsa nel 1996, poiché in Italia non ha consentito a persone realmente motivate di servire la divisa e la propria Istituzione, ma semplicemente ha creato veri e propri ghetti: in questo periodo, si doveva effettuare un periodo di ferma obbligatoria, poi si doveva vincere un concorso per un arruolamento triennale, all’esito di questi 4 anni circa, si doveva sostenere un altro concorso per la ferma illimitata, il cui esito per il candidato era comunque incerto; ancora, questo percorso era condizione essenziale per accedere ai ruoli delle Forze di Polizia, quando nessun problema si era mai verificato con il c.d. servizio degli ausiliari.

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Ometto gli ultimi vent’anni per arrivare ad esaminare il caso di Colleferro. La opinione “politicaly correct” cita che giovani presuntivamente appartenenti alla società buona, inquadrati in un percorso di arti marziali e fascisti hanno commesso un barbaro omicidio di un ragazzo di colore di nazionalità capoverdiana. Ricordo ai lettori che capoverdiano era anche il carnefice di Jessica Notaro, ma non mi sembra che sia stato apostrofato come maschilista, fascista, impotente, animale, maiale, perché credo fosse anche lui extracomunitario. Questo è il punto: con un frettoloso click del mouse si è classificato l’omicidio del povero Willy come un atto a sfondo razziale di matrice fascista e nessuno si è soffermato sull’allarme sociale molto più grave che sta detonando in questi ultimi anni. I giovani si trovano di fronte ad un nichilismo culturale, religioso e morale. Alcuno potrebbe commentare eccolo il moralista da quattro soldi, ma allo stesso tempo dovrebbe ardire di smentirmi, allorquando sostengo che la totale assenza di credo e di ideali nei ragazzi contemporanei sia il principale movente criminologico di tanti fatti di cronaca nera. Potrei citare Pietro Maso, Erika ed Omar ed oggi le quatto belve di Colleferro, tutti accomunati dal culto ossessivo della propria persona, che li ha spinti a considerare un’inezia il soffocamento violento di un’altra vita umana.

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Lo stesso dicasi per i killer cosiddetti di professione, i quali, per illudersi di non soffrire all’idea di uccidere, sostengono che sparare sia un gesto normale ed indifferente. Allo stesso modo, il martire Willy, che con un gesto spontaneo di altruismo stava tentando di mettere pace fra ragazzi, ha incontrato la morte repentina e dolorosa. Il movente non era politico, ovvero non passi l’ipocrisia che il male assoluto sia solo la matrice fascista, sempre da abiurare e contrastare, ma era l’insostenibile leggerezza di essere “bulli”. Durante il servizio militare obbligatorio molti ragazzi di buona famiglia temevano il c.d. “nonnismo”, che pure era un fenomeno esecrabile, ma lo Stato adottò misure contenitive e repressive del fenomeno.

In epoca odierna, dove la scuola non riesce a colmare le lacune educative di una società disgregata fra famiglie frammentate, per separazioni, divorzi, sedi di lavoro disgiunte fra genitori, disagi economici, forti differenze culturali, detenzioni per motivi di giustizia, un adolescente che deve formare la propria identità intellettuale non ha riferimenti. Personalmente il significato inconscio della onestà lo ho compreso a circa 8 anni quando mio nonno mi raccontava che per guadagnare cento lire occorreva il sudore della fronte. Questo evento favolistico ha letteralmente martellato la mia psiche ed ho cercato di emulare la mia famiglia, ma cosa sarebbe accaduto se mio nonno avesse reagito come i genitori dei fratelli assassini che hanno minimizzato il crimine affermando che si trattava di un ragazzo nero? In che modo avrei formato il mio libero arbitrio? La risposta è che sarebbe stato molto difficile ad 8 anni pensare che esiste una giustizia universale che ci rende individui liberi ed uguali.

Per questo motivo, la strada più facile da percorrere per rappresentare un mito, un modello, una entità sovrannaturale è il bullismo: uomo lupo dell’altro uomo ed il gioco è fatto. Questo valeva per i genitori dei fratelli e questo è valso per gli stessi nel commettere l’orrendo omicidio. Ma vi immaginate quanta brutalità e violenza ha manifestato l’inconscio dei quattro aggressori quando non si sono fermati a pestare il ragazzo solo e più debole. E’ mai possibile che solo il fascismo asseritamente professato dai criminali sia stato tanto manovratore delle loro menti da indurli in trance mistica e minimizzare il loro omicidio? La risposta è che questi volgari criminali sono stati liberi ed indisturbati di praticare da anni, forse da sempre, il loro essere bulli e la intera società non ha mai prevenuto il loro schifoso comportamento. Soltanto dopo la morte del ragazzo capoverdiano un coro di voci indignate strumentalizzano il colore della pelle della vittima, per ghettizzare in un periodo storico concluso 75 anni or sono un crimine efferato e fingere di non capire che una comunità nichilista come quella contemporanea è potenzialmente teatro di scontri sociali pericolosissimi. Con l’effetto “Di Pietro” un giovane voleva vestire una divisa, oggi vuole partecipare alle selezioni del “Grande Fratello” edizione nr. 800 (numero iperbolico ironico).

Paolo Villaggio nella bellissima rappresentazione cinematografica “Io speriamo che me la cavo” chiedeva al bullo della classe il motivo della sua aggressività e questi rispondeva che il vero uomo non doveva mai piangere e mai volere bene a qualcuno. Questo è il codice per decifrare le profonde radici del brutale assassinio di Willy: 4 ragazzi sperimentano il loro delirio di narcisismo e di onnipotenza sentendosi uomini mediante la soppressione del più debole di turno, ma la società intera deve interrogarsi sul motivo del suo complice silenzio. Simili belve non voglio pensare che sia stato il solo caso isolato che abbiano compiuto. Ci sono state persone che in maniera più lieve hanno subito gli attacchi di questo branco ed avendone la forza di difendersi non l’hanno impiegata per un calcolo di convenienza ovvero di compromesso, ovvero alcuni hanno taciuto timorosi di essere perseguitati individualmente e non ricevere adeguata protezione dallo Stato e dalla società. Il male si combatte insieme e non da soli, l’uomo è tale se vive in pacifica convivenza con i suoi simili e le bestie cosidette combattono ed uccidono solo per mangiare o per riprodursi, ma non per il narcisismo, padre dell’insostenibile leggerezza del bullismo.

* AVVOCATO

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