LE OPINIONI

IL COMMENTO Porto ed archeologia a tutto tondo

Non ho potuto partecipare in presenza alla Relazione dell’archeologa del mare Alessandra Benini, presso la Biblioteca Antoniana, ma ho potuto successivamente seguire l’edizione televisiva diffusa da Teleischia, sulle ricerche archeologiche subacquee nel Porto d’Ischia. Farò alcune considerazioni in merito che – ci tengo a precisare in premessa onde evitare malintesi – non sono minimamente mirate a sottovalutare l’impegno e la competenza né dalla Benini né dall’organizzazione presieduta da Giulio Lauro né da volontari e tecnici fin qui impegnati, a vario titolo, nel Parco Sommerso di Aenaria e nelle più recenti ricerche su una probabile villa marittima romana, con annesse terme, che si estendesse dal tondo di Marco Aurelio alla banchina corrispondente sul porto. Benedetto Valentino aveva fatto in tempo, prima di dare alle stampe il primo volume della sua Storia ischitana che abbraccia dalla preistoria alla fine del feudalesimo, ad inserire a pag. 23 le ricerche della Benini sul Porto.

Su Il Golfo ha affrontato l’argomento Antonio Lubrano. La Benini, nella sua Conferenza, un po’ seccata per aver visto (involontariamente) storpiato il suo cognome in “Bernini”, è sembrata non apprezzare la formula (necessariamente) dubitativa con cui l’amico Antonio aveva battezzato l’iniziativa. L’archeologa ha tenuto a precisare che siamo solo ai primi passi della ricerca (non è facile immergersi, fotografare, esaminare, con l’arrivo e partenza di traghetti ed aliscafi al ritmo di ogni mezz’ora e con l’acqua limacciosa e torbida) e che la ricostruzione in 3D, ad opera di Darwin Studios e a cura di Danilo Arcopinto e Silvia Piscopo, è una proiezione fantastica dei dati finora emersi da una prima incompleta osservazione del tondo (a circa 5 metri di profondità), con una base non più circolare, come quella visibile in superficie, bensì rettangolare, pavimentazione in marmo, soglie e resti di intonaci alle pareti e con l’ausilio di parallelismi con altre ipotesi di ville romane. Inoltre, la Benini è sembrata forse troppo attenta a tranquillizzare quanti hanno interesse ad evitare limitazioni dell’attività portuale (intensissima) a causa delle ricerche e di eventuali vincoli, sottolineando, per esempio, che le eliche di aliscafi e traghetti non sembrano aver arrecato danni ai reperti, anzi avrebbero addirittura evitato il formarsi di microrganismi nocivi ai resti in legno che facevano da supporti alla costruzione.

Alla fine, la Benini ha affermato che scopo principale della comunicazione dei primi esiti di questa ricerca è quello di raccomandare cautela e attenzione nel caso di eventuali interventi di dragaggio del Porto. Ecco, allora, lo scopo di questo articolo: mettere in discussione il minimalismo e invitare ad un’assunzione di responsabilità tutte le autorità competenti. Se fosse vera l’ipotesi formulata dalla Benini, ci troveremmo di fronte ad un fatto storico di portata mondiale. Allora, a coloro che, da studiosi volontari, hanno aperto questo capitolo, vanno mille ringraziamenti, ma non è pensabile che la Soprintendenza in primo luogo (nella persona di Teresa Cinquantaquattro e nella persona della responsabile di zona Luisa Tardugno), la Regione Campania (che non ha un Assessore alla Cultura) e il Comune d’Ischia non assumano le redini della questione. Bisogna pretendere che venga chiamato in causa il meglio dell’archeologia sommersa esistente in Italia (senza nulla togliere alla Benini). Per esempio, un’autorità in materia è sicuramente il prof. Filippo Avilia, docente di Archeologia Subacquea all’Università IULM di Milano, che ha scritto numerosi saggi e col quale collabora anche la moglie Maria Luisa Bruto, anch’essa archeologa e topografa. Tra l’altro, Avilia è di Pozzuoli e ha avuto esperienze di ricerca a Baia, Terracina e Napoli. Due anni fa, a Taormina vi fu un importante Convegno mondiale sull’archeologia sommersa, dedicato a Sebastiano Tusa che aveva fondato in Sicilia la Soprintendenza del Mare. A quel Convegno intervennero i migliori studiosi di Italia, Spagna, Germania, Malta, tra cui Luigi Fozzati, docente della Ca’ Foscari di Venezia, decano degli archeologi subacquei. Furono evidenziati, in quella occasione, Baia, la nave sommersa di Albenga (Liguria), il sistema portuale antico di Bari, la carta dei relitti del mare di Venezia, l’approdo fluviale di Pisa, la didattica subacquea del Lago di Bolsena (Lazio), il relitto di Spargi in Sardegna. Non si parlò, a quanto mi risulta e “ correggetemi se sbaglio”, del Parco Sommerso di Aenaria. Segno che Ischia non è, fin qui, riuscita a dare un respiro nazionale (per non dire “internazionale”) alla validissima risorsa storico-archeologica. I privati e volontari hanno, fino ad oggi, fatto il possibile.

E’ ora che le istituzioni pubbliche prendano seriamente in mano (senza estromettere il privato ma fornendogli il quadro di riferimento, le giuste risorse e i collegamenti esterni) tutto il comprensorio Ponte-Porto. Un errore potrebbe essere quello di voler per forza dimostrare che Ischia, prima colonia euboica, primeggi anche come luogo di romanità antica. La verità scientifica e storica va rispettata in pieno, se vogliamo credibilità internazionale. Sarebbe clamorosa, se fosse vera, l’ipotesi dei resti di una villa romana poggiata tra la sponda del Porto e il tondo di Marco Aurelio. Ma senza fughe in avanti e forzature. Ci vuole l’avallo ufficiale della Soprintendenza. L’isola greca di Alonissos, nelle Sporadi, è uno dei Musei archeologici subacquei più importanti al mondo, caratterizzato dal relitto di una nave adagiata da oltre 2500 anni fa sul fondale al largo dell’isola. Ebbene, tale Parco Sommerso ha visto impegnati la Soprintendenza alle Antichità Subacquee, la Regione Tessaglia, il Sottosegretario di Stato alla Cultura Kostantinos Stratis. Questo è il metodo! E non sottovalutiamo, nel frattempo, i rischi che provengono dall’uso sempre più intensivo del Porto d’Ischia (in parte anche della nautica da diporto in Aenaria). Pensate che negli anni ’30 del 1900, il Porto veniva dragato col cosiddetto “cucchiaione”, un attrezzo simile ad un grosso coppo di tela ruvida, cucito su un robusto attrezzo di ferro di forma ovale, con una grossa punta modellata al meglio e un bicchiere di ferro, saldato sul lato opposto, dove si infilava un lungo e robusto palo di legno (detto “manico”) di 5 metri. Per manovrare questo arnese ci volevano quattro operai. Quello che si riusciva a dragare, veniva messo su delle carriole e poi riversato nella parte bassa, non banchinata, della riva sinistra del porto, tra la Boccavecchia e la Casetta del Genio Civile. Se, per caso, in quei dragaggi, c’era materiale di studio utile, è molto probabile che sia andato disperso. In ogni caso, vale la pena di estendere le ricerche anche a quel tratto delle acque del porto. Tra l’altro, l’area è interessata da lavori di ripristino estetico della Boccavecchia e da un’intensa attività di rimessaggio e noleggio imbarcazioni da diporto. Una volta tanto, cerchiamo di prendere sul serio, una questione molto seria!

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