LE OPINIONI

IL COMMENTO Se “guerra” non è soltanto una parola

DI ARIANNA ORLANDO

Alcuni annunciano che l’aria che tira non sia mai stata carica di polvere da sparo dai tempi che furono e le similitudini e le metafore tra i tempi che corrono e quelli che corsero durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale rendono spaventoso e terribile ogni annuncio del telegiornale, ogni rotocalco usufruibile. Negli ultimi decenni la parola guerra è stata per molti di noi (fortunatamente) solo una parola perché per quanto ripetutamente si sia sentito parlare di altri conflitti estremamente dannosi per il mondo sociale, economico, umano e direi anche ambientale, non ce ne siamo occupati più che per il tempo necessario di condividere un post su fb, di cambiare canale al telegiornale, di dire “guarda che sta succedendo” e poi dimenticarcene portati via dal flusso di mille altre cose e mille altre parole. Guerra è stata fino a circa una settimana fa per noi solo una parola: una parola da dire con astio e disprezzo, che aveva un sapore esotico e un odore passato. Cos’altro era stata la guerra, infatti, se non quella cosa dei paesi lontani per cui si sparano colpi di arma da fuoco e si gettano bombe e la gente muore e ha paura e scappa? Che cos’era la guerra per noi che non siamo nati in tempo per vedere il Secondo Conflitto Mondiale spegnersi come un enorme incendio che aveva distrutto ogni cosa?

La civiltà, dicevano, e lo promettevano, ha imparato. Siamo nel paese, dicevo, dove da molti anni la parola guerra è solo una parola e ti suona falsata adesso la paura delle bombe se il tuo micro-universo, indipendentemente da quanto accade, continua a vorticare a vorticare a vorticare su se stesso e ancora di più se il Fato-Social e gli dei influencers non ritengono necessario che la guerra entri come argomento nelle loro storie di Instagram. Ci ricordiamo della guerra ora che è tornata, ora che è già fra noi e lo sforzo per ricacciarla dal luogo oltre-umano da cui è venuta sarà immenso, estenuante. Eppure assicurarsi la pace, questo fantasma, di cui non percepiamo la presenza – come ci accade con l’aria tanto indispensabile quanto invisibile e che sulle spalle non pesa – effettivamente ci serve come una necessità da cui non possiamo guarire. Come l’aria, appunto, e come l’acqua la pace ci serve. E proprio come saremmo disposti a respirare aria anche dalle crepe dei muri se questa ci finisse o a bere dalle gocce di pioggia se l’acqua a un tratto scomparisse, saremmo disposti – se la pace ci venisse a mancare – a cercarla, a scovarla dove si cela, a scavare nella terra con le mani disperatamente se sotto terra si nascondesse. La sensazione che hai adesso è che non devi forse preoccuparti più di tanto, che la guerra è ancora cosa d’altri a casa d’altri, è roba che ti riguarda fino a un certo punto, e allora: ti dispiace? E’ ovvio che ti dispiace di tutte quelle cose: i morti, i feriti, le bombe, è tutto così tragico ma è cosa d’altri. Eppure, mentre pensi a tutto questo, e ti viene quasi spontaneo e naturale, non puoi fare a meno di lasciarti prendere da un’altra sensazione comprensibilissima ma compromettente: che un laccio improvvisamente (quasi) stia come circondando l’Europa stringendole il corpo e la testa e tu, cittadino, sei nel bel mezzo di questo restringimento. Tu, che eri il cittadino d’Europa, adesso non sei più l’eletto che guarda alla guerra di paesi in cui, ti dici, non andrai mai per evitarla. Tu, cittadino d’Europa, adesso sei al centro del pericolo. Ti senti, allora, come se L’Europa che hai sempre immaginato come ali spianate si stia invece trasformando in un recinto ove entrano le bombe e i lupi contro pace e animali indifesi. Ti prende il timore che Hitler non sia morto, che si sia infilato in una crepa del terreno e abbia atteso tutto questo tempo nel cuore di fuoco della terra e ora sia ricomparso sotto forma di uomo e sotto forma di veleno nell’aria razzista che si inizia a respirare nei confronti dei russi.

Si è pensato di escludere Dostoevskij da un seminario, si è pensato di evitare di parlare di questo e di quello perché russo o filorusso, come se “russo” fosse diventato il nuovo sinonimo di “cattivo”. Ma non ti pare che è già successo? E non una ma molte, molte volte? Non voglio, non posso indagare le cause che hanno acceso la miccia dello scontro: qualsiasi motivo è troppo poco per giustificare il dramma che si sta consumando in Ucraina; qualsiasi spiegazione sulla regione del Donbass o sulla credenza che l’Ucraina non esiste ma questa sia solo un’estensione russa con un altro nome, mi sembrerebbe un atto di clemenza molto ipocrita nei confronti di coloro che stanno soffrendo sotto la pioggia di bombe. Sarebbe come dire al popolo ucraino “stai soffrendo e lo stai facendo per questo!” ma non è vero! Non c’è una ragione che sia moralmente accettabile per questa guerra e per nessuna guerra. Non c’è ragione che sia moralmente e umanamente accettabile per una presente o futura discriminazione verso il popolo russo che in questo momento sta patendo una scelta scellerata e sta protestando contro il suo governo. Dunque io, che mi auguravo e mi auguro sempre, di non dovere mai essere svegliata dal suono delle sirene che annunciano i bombardamenti, imparo a diffidare da chi prima scrive “pace” e poi dice “ecco il russo!” con disprezzo, e già che ci siamo anche da chi non riconosce che Dostoevskij era un autore anti-guerra.

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