IL PUNTO Petrarca, Napoli e quel “terremoto” che venne dal mare
DI MASSIMO MATTERA
Nei 20 libri che compongono la Istoria del Regno di Napoli (1581), lo scrittore e storico napoletano Angelo di Costanzo (1507-1591) ricostruisce i principali accadimenti verificatisi all’ombra del Vesuvio tra il 1250 e il 1489. Nella sua voluminosa opera, include anche una lettera inviata da Petrarca al cardinale Giovanni Colonna, membro di quel prestigioso casato che, fra tanti illustri, diede anche i natali a Vittoria Colonna, intellettuale e mecenate, intimamente e profondamente legata a Ischia e al suo castello. Narra il Di Costanzo che Petrarca era stato inviato dal porporato a Napoli, nella veste di “nunzio apostolico” (ovvero, ambasciatore) per implorare la “libertà” di alcuni amici e parenti. Ma la notte del 24 novembre 1343, trascorsa presumibilmente presso il complesso di Santa Chiara, Petrarca è spettatore di eventi terrificanti oggetto, appunto, della citata epistola. Scrive: […] Venne poi la sera, e il cielo era più sereno del solito, e i servitori miei dopo cena mandati a dormire, rimasi aspettando per vedere come si ponea la luna, la quale credo che fosse settima, e verso occidente la vidi avanti mezza notte ascondersi dietro il monte di San Martino, […]. Dopo d’avere un buon pezzo vegliato, cominciando a dormire, mi risvegliò un rumore ed un terremoto, il quale non solo aperse le finestre e spense il lume, ma commosse la terra dai fondamenti e pareva che subissasse la camera dove io stava. Essendo dunque in cambio del sonno assalito dal timore della morte vicina, uscii nel chiostro del monastero. […] I frati e il priore […] erano andati alla chiesa per cantare mattutino, sbigottiti da sì atroce tempesta, con le croci e reliquie di santi, e con devote orazioni, piangendo, vennero ove io era con molte torce allumate. […]
IL RUMORE FRAGOROSO, PETRARCA E LA NATURA CHE INFURIA
Dunque, prossima al tramonto, la luna rischiara il cielo che, calmo e sgombro di nubi, non lascia presagire sconvolgimenti e invita Petrarca al sonno. Improvvisamente, un “terremoto” preceduto da un fragore, scuote la sua stanza fin dalle fondamenta. Spaventato, il poeta cerca rifugio e, abbandonato il chiostro, si reca in chiesa ove incontra il priore e i frati; i religiosi, attoniti e piangenti, raccoltisi in preghiera, invocano l’intercessione divina per placare la furia della natura. Ma, riferisce Petrarca, la natura infuria. Acquazzoni, tuoni, il mare che ruggisce, grida di terrore: un terremoto! Il tempo sembra fermarsi; poi, finalmente, si scorgono le prime luci dell’alba: […] Che gruppi d’acqua! che venti! che tuoni! che orribile bombire del cielo! che orrendo terremoto! che strepito spaventevole di mare! e che voci di tutto un sì gran popolo! Parea che per arte maga fosse raddoppiato lo spazio della notte; ma alfine pur venne l’aurora […].
LA TERRA CHE SI INABISSO’ O IL MARE CHE LA SOMMERSE
Indi, i religiosi, indossati i paramenti sacri, si apprestano a celebrare la messa; intanto, mentre le zone alte sembrano acquietarsi, dalla marina si levano invocazioni di aiuto. Pur angustiato e terrorizzato, Petrarca si arma di audacia e, in sella al suo cavallo, si lancia per prestare soccorso. Giù, alla marina, si imbatte in una scena dantesca: ovunque cadaveri e feriti, marinai affogati e maciullati come uova rotte, teste e arti frantumati, budella e sangue, morte. […] Cominciò a cessar il fremito delle genti dalle parti più alte della città, e crescere un remore maggiore verso la marina, e già si sentivano cavalli por la strada, né si potea sapere che cosa si fosse; alfine, voltando la disperazione in audacia, montai a cavallo ancor io por vedere quel era, o morire: Dio grande!, quando fu mai udita tal cosa? I marinari decrepiti dicono, che mai fu né udita né vista: in mezzo del porto si vedeano sparsi por lo mare infiniti poveri, che, mentre si sforzavano d’arrivar in terra, la violenza del mare e gli avea con tanta furia battuti nel porto, che pareano tante uova che tutte si rompessero; era pieno tutto quello spazio di persone affogate, o che stavano per affogarsi; chi con la testa, chi con le braccia rotte, ed altri che loro uscivano le viscere […]. Narra, poi, di un frastuono assordante. La terra inizia a inabissarsi (o, ed è lo stesso, il mare a sommergere la terra). Petrarca e gli altri soccorritori salvano la vita scappando a monte: […] Ma subito si levò un remore grandissimo, che il terreno che ne stava sotto ai piedi, cominciava ad inabissarsi, essendogli penetrato sotto il mare. Noi fuggendo, ne ritirammo più all’alto […]
QUELLE GIGANTESCHE ONDE CHE TRAVOLSERO TUTTO E TUTTI
Tutto è mutato. Il cielo è diventato minaccioso e onde, insolitamente bianche e alte come montagne, da Capri muovono ostili verso Napoli. […] Era cosa oltremodo orrenda ad occhio mortale, vedere il cielo in quel modo irato e il mare così fieramente implacabile; mille monti d’onde, non nere né azzurre, come sogliono essere nell’altre tempestadi, ma bianchissime, si vedeano venire dall’isola di Capri a Napoli […] Nel porto, epicentro della tragedia, i giganteschi flutti non risparmiano manco le navi ormeggiate, tranne una, ironia della sorte, carica di 400 galeotti, perfidi ma abili nella tempesta: […] Nel porto non fu nave che potesse resistere, e tre galee ch’erano venute da Cipri [Cipro] ed aveano passato tanti mari, e voleano partire la mattina, si videro con grandissima pietà annegare, senza che si salvasse pur un uomo. Similmente l’altre navi grandi che aveano buttate l’ancore al porto, percotendosi fra loro, si fracassarono, con morte di tutti i marinari; sol una di tutte, dov’erano quattrocento malfattori, per sentenza condannati alle galee, […] si salvò, avendo sopportato sino al tardi l’impeto del mare, per lo grande sforzo de’ ladroni che vi erano dentro, i quali prolungaro tanto la morte, ch’avvicinandosi la notte, contra la speranza loro e l’opinione di tutti, venne a serenarsi il cielo ed a placarsi l’ira del mare, a tempo che già erano stanchi: e così d’un tanto numero si salvaro i più cattivi […].
ANCHE DI COSTANZO PARLO’ DI TERREMOTO, IPOTESI ACCETTATA PER SECOLI
Come Petrarca, anche il Di Costanzo nel suo “Istoria” definì il fenomeno un terremoto, un’interpretazione, si badi bene, accettata per secoli. Tuttavia, una più attenta lettura suggerisce che ben altra dovette essere la sua natura… Un terremoto, infatti, avrebbe colpito di pari misura sia le zone costiere che quelle collinari di Napoli; invece, Petrarca riferisce che il fenomeno interessò solo la marina, ove si registrarono morti e distruzione. Lo confermano anche altre fonti. Esse ribadiscono che ingenti furono i danni nell’area portuale, con la distruzione di cantieri, attrezzature marittime e fortificazioni, ma aggiungono che la devastazione non risparmiò neppure la chiesa di San Pietro martire (che in seguito dovette essere restaurata) nonché quella di Piedigrotta, entrambe prossime al mare; sorte addirittura peggiore toccò alle chiese di San Giovanni Battista e Santa Maria dell’Incoronata, seppellite da una spessa coltre di sedimenti e riportate alla luce dagli Aragonesi decenni dopo (del resto, ancor’oggi, giacciono sotto il piano stradale). Ma quell’insolito “terremoto” investì anche la marina di altre località come Pozzuoli (oltre ad alcune case, fu distrutto il ponte levatoio, mentre l’acquedotto fu interrato in molti punti) e Amalfi (devastata per almeno un terzo).
LA NUOVA IPOTESI: A DEVASTARE NAPOLI FU UN MAREMOTO
In base a queste evidenze, è stata quasi del tutto abbandonata l’ipotesi del terremoto e si è virato su un’altra che gode di maggiore consenso presso la comunità scientifica. Quel lontano 25 novembre 1343, Napoli e dintorni furono devastate dalle onde di un maremoto. Ciò giustificherebbe non solo il differente impatto tra le zone basse e alte di Napoli e dintorni, ma anche altri passaggi della missiva, come quelli in cui Petrarca descrive le gigantesche onde che vedeva provenire da Capri e quando riferisce che per salvarsi, insieme ad altri soccorritori, fu costretto a rifugiarsi a monte. Dunque, non un terremoto ma un maremoto. Ma cosa lo avrebbe innescato? Due, le teorie… Una lo attribuiva a frane sottomarine prodottesi a Ischia. Nel 1302, dal cratere apertosi a Fiaiano, in località “Solfonaria” (poi, ribattezzata “Arso”), fuoriuscì un’enorme colata (ca. 300 milioni di m3) che, riversatasi a valle (ai “Petroni”), mosse verso il mare; dopo circa due mesi e aver sepolto gran parte delle dimore che sorgevano a ridosso della marina in “terra plana”, precipitò in mare, prolungando la linea di costa e formando Punta Molino. Questi i fatti accertati. Veniamo all’ipotesi… Le scarpate marine limitrofe, rese altamente instabili dalla convulsa genesi, quattro decenni dopo (un battito di ciglia nell’orologio geologico) sarebbero franate e avrebbero provocato onde anomale: un maremoto, appunto, che avrebbe investito la costa campana, almeno nel tratto compreso tra Pozzuoli e Amalfi.
UN FENOMENO CHE RICONDUCE A STROMBOLI, ECCO PERCHE’
Attualmente, però, è stata elaborata una nuova tesi sostenuta da maggiori e più solide evidenze scientifiche e archeologiche. Una tesi che ci fa navigare più a sud. Fino a Stromboli. L’isola, nonostante la sua natura impervia, fu abitata da almeno l’Età del Bronzo. La presenza umana restò rilevante fino alle Crociate; a quei tempi, giocò un ruolo strategico per la sua posizione in quanto le navi cariche di crociati e provenienti da altri porti mediterranei, trovavano nell’isola un pratico e irrinunciabile scalo prima di proseguire la loro navigazione verso la Terra Santa. Un giorno, però, l’isola fu abbandonata. Perché? Recenti scavi condotti a Stromboli in prossimità della costa, hanno portato alla luce alcuni terrazzamenti in cui sono stati rinvenuti i resti di un antico villaggio. Il ritrovamento di numerose monete coniate tra il 1250 e il 1300 nonché il ricorso alle tecniche di datazione hanno permesso di stimare che il villaggio fu abitato fino al XIV secolo, per poi essere improvvisamente abbandonato perché distrutto da un evento (Stromboli verrà ripopolata solo nel XVII secolo). Ma da cosa? I resti del villaggio giacciono sotto alcuni “depositi”, termine con cui in geologia si indicano strati più o meno regolari di materiali, dalla cui analisi è possibile risalire alla genesi del fenomeno che li ha prodotti. Ebbene, basandosi sulla loro natura si è potuto stabilire che furono originati da un maremoto di proporzioni immani, seguito, nello stesso secolo, da altri due tsunami.
LA FRANA NEL SUOLO E IL RECENTE EPISODIO DEL 2002
I maremoti sono fenomeni abbastanza frequenti a Stromboli. L’ultimo si è prodotto solo due decenni or sono, il 30 dicembre del 2002. Quel giorno, il normale ciclo di attività vulcanica dell’isola, che si caratterizza per eruzioni frequenti (in media ogni 5/10 minuti) ma a bassa intensità e pericolosità (in vulcanologia questo peculiare stile viene definito appunto “stromboliano”), è stato perturbato da un evento molto più violento: come conseguenza, a Sciara del Fuoco, da ca. 500 m di altezza, un enorme blocco di lava e roccia (ca. 16 milioni di m3) è precipitato in mare e ha provocato un maremoto che ha investito, oltre alla costa di Stromboli, anche quella delle restanti isole dell’arcipelago nonché della Calabria e della Sicilia. Del tutto analogamente, anche quel lontano 24 novembre del 1343, un improvviso incremento dell’attività vulcanica, sempre da Sciara del Fuoco avrebbe innescato una frana di proporzioni di gran lunga superiori rispetto a quella del 2002, responsabile di un maremoto di proporzioni immani e del conseguente improvviso abbandono dell’isola. È evidente che le onde del maremoto, oltre alla costa napoletana, dovettero investire anche Ischia; tuttavia, il fenomeno non viene descritto, almeno non vi è traccia nelle fonti in mio possesso. Non sorprenda. Non succede neppure per Capri; eppure, come riferisce lo stesso Petrarca, l’isola ne fu investita, ma come noto, i due principali abitati dell’isola si trovano a salvo dalle onde del maremoto perché siti in alto (e, magari, non sarà una coincidenza).
ISCHIA, L’ERUZIONE DELL’ARSO 40 ANNI PRIMA DEL MAREMOTO
A Ischia, invece, solo 40 anni prima del maremoto, si era verificata l’eruzione dell’Arso. Fu un evento devastante per l’isola ma, nonostante ciò, viene omessa dal Di Costanzo ed è citata solo da poche fonti. Dopo l’eruzione, gran parte della popolazione superstite si rifugiò sul Castello Aragonese. Dall’alto, al sicuro, quella lontana notte di novembre, i nostri conterranei dovettero udire (e forse osservare) il fragoroso impatto delle enormi onde contro le rocce dell’emblematico isolotto. Oltre alla lava incandescente dell’Arso, dunque, essi riuscirono a sfuggire anche alla furia delle onde del maremoto, su quel isolotto che, quella notte, a momenti dovette apparirgli una trappola mortale. Avrebbero potuto trascriverlo, certo. Ma ricordiamolo, siamo nel Medio Evo, le tenebre avvolgevano il mondo, la gente conduceva un’esistenza non esaltante e, specie nelle isole, aveva ben altro a che pensare. Manco ci è dato investigare a noi geologi l’esistenza di depositi di questo maremoto a Ischia in quanto il versante sud-orientale, ovvero quello esposto alle onde del maremoto, si presenta scosceso e, quindi, a differenza di Stromboli, non presenta terrazzamenti ove avrebbero potuto accumularsi evidenze (depositi) del fenomeno. Chi ama le Scienze, sa che il Tempo agisce come un setaccio. Persino cataclismi devastanti e terrificanti si perdono nell’oblio delle sue maglie perché ogni giorno esse diventano più strette e invalicabili. Fra tante ombre e tenebre che hanno oscurato e cancellato la memoria di calamità del passato, oggi tanto necessaria per metterci al riparo da quelle future, le due lettere che Plinio il Giovane inviò a Tacito. In esse, descrive con precisione e dettaglio l’eruzione del Vesuvio che devastò Pompei, Ercolano e altre urbe vicine. Restano una delle più straordinarie e preziose testimonianze pervenuteci dai nostri avi. Senza Plinio, nonostante la nostra scienza, sapremmo ben poco di quanto accade quel torrido agosto del 79 d.C. Ma questa è un’altra storia che un giorno spero di trovare il tempo di raccontare…