CRONACAPRIMO PIANO

Il Tar ordina la demolizione a metà: salvo il casotto

I giudici della I Sezione accolgono solo in parte il ricorso di un cittadino di Casamicciola contro l’ordine di abbattimento di tre manufatti. La scala in muratura è salva perché inclusa in una vecchia domanda di condono mai respinta. Ma per il casotto e il serbatoio, realizzati senza titolo, scatta la demolizione

Mezza vittoria e mezza sconfitta per Ignazio Pompilio, cittadino ischitano che aveva impugnato davanti al Tar Campania l’ordinanza del Comune che gli imponeva la demolizione di tre manufatti realizzati accanto alla sua abitazione. A stabilirlo è la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Sesta), che ha annullato solo in parte l’ordinanza comunale n. 99 dell’11 dicembre 2024, firmata dal Responsabile dell’Area VI – Urbanistica del Comune di Casamicciola Terme. Secondo l’amministrazione, il ricorrente avrebbe realizzato opere abusive su suolo pubblico: nello specifico, una scala in muratura lunga oltre sei metri, un serbatoio e un piccolo casotto, anch’essi in muratura. Ma per il Tar, almeno per quanto riguarda la scala, le cose non stanno così. La parte più significativa della sentenza riguarda proprio la scala. I giudici, infatti, sottolineano che «dalla visione dei grafici allegati alla istanza di condono appare di tutta evidenza che la costruzione oggetto di sanatoria era comprensiva della scala che consente l’accesso al primo piano e che è posizionata sul prospetto ovest».

Secondo il Tar, quindi, la scala rientra pienamente nella domanda di condono edilizio presentata il 29 marzo 1986 (protocollo 2912), ai sensi della storica legge n. 47 del 1985, e non vi è alcuna traccia del rigetto da parte dell’amministrazione. Una circostanza che, per la giurisprudenza consolidata, impedisce al Comune di disporne la demolizione fino a quando non si sia espressamente pronunciato su quella sanatoria. E poco conta – scrive il giudice estensore Angela Fontana – se la scala sia effettivamente collocata su suolo pubblico: «Tali circostanze non sono idonee ad escludere che essa sia stata oggetto di condono». Diverso invece il destino degli altri due manufatti: il casotto e il serbatoio, per i quali non esiste alcuna richiesta di sanatoria. Il Tar precisa che queste opere “realizzano nuova volumetria” e sono situate in zona soggetta a vincolo, motivo per cui l’intervento del Comune è ritenuto legittimo. E non regge la tesi del ricorrente secondo cui sarebbero state realizzate da terzi in epoca antecedente al suo acquisto dell’immobile: «La giurisprudenza ha precisato che il proprietario può essere esonerato da tale obbligo ove dimostri, con elementi concreti e circostanziati, di essere incolpevole. Nel caso di specie, tale prova non è stata fornita dal ricorrente». Quindi: manufatti da abbattere e nulla da eccepire.

Il Comune ha agito legittimamente sugli immobili da abbattere, secondo i giudici. Spese compensate tra le parti. Una decisione che chiude un contenzioso lungo quasi quarant’anni

Nel suo ricorso, Pompilio aveva sollevato anche vizi procedurali: secondo la difesa, l’ordinanza di demolizione sarebbe stata illegittima perché adottata senza la preventiva diffida, come previsto dall’art. 35 del Testo Unico dell’Edilizia in caso di abusi su suolo pubblico. E ancora: il Comune non avrebbe comunicato l’avvio del procedimento, violando l’art. 7 della legge n. 241/1990. Ma queste doglianze, pur riportate nel ricorso, non hanno inciso sull’accoglimento parziale da parte del Tar, che si è concentrato soprattutto sull’esistenza o meno di titoli abilitativi o istanze di condono. Quella della scala, in realtà, è una vicenda che risale ad almeno 40 anni fa, con accertamenti edilizi documentati già nel 2007. Il Comune sostiene che la scala sia stata realizzata senza permesso in area pubblica e affacciata su via Dott. G. Verde. Ma la presenza di una domanda di condono tuttora inevasa e mai rigettata, ha fatto pendere la bilancia in favore del ricorrente – almeno su questo punto. La sentenza si chiude con una formula frequente nei giudizi amministrativi: «Le peculiari connotazioni della controversia consentono di compensare tra le parti le spese del giudizio». In sostanza ognuno paga i propri avvocati.

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