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Ischia e la violenza sulle donne

LETTERE A UNO PSICOANALISTA

 

Gentile Professore,

sono una di quelle donne, di cui spesso si parla e poco si sa: una donna che subisce da anni aggressioni morali e fisiche da chi, al momento del matrimonio, aveva giurato di prendersi cura di lei. Invece, giorno dopo giorno, quest’uomo, che non riesco più a chiamare “mio marito”, aumenta la sua pressione su di me, fatta di ingiustificata gelosia, controlli ossessivi, domande inquisitorie, minacce. Sono spaventata, anzi terrorizzata: intorno a me, a parte i figli, diventati la mia unica ragione di vita, c’è ormai solo il vuoto.  Non posso coltivare neppure il rapporto con un’amica, né avere una persona con cui confidarmi; ho perso ben presto tutti i contatti con le mie ex compagne di scuola e non ho il coraggio di riallacciarli. Persino quando faccio cose innocenti mi sento seguita, spiata, in pericolo. La mia vita, a volte, mi sembra un incubo; altre penso che ormai mi sono abituata e che, quasi quasi, non saprei cosa farmene di una libertà personale, che per altro mi sembra impossibile da conquistare.

        In passato, ho chiesto aiuto ai miei familiari, i quali me lo hanno esplicitamente rifiutato: per loro una donna deve subire e basta e, soprattutto, deve mostrare di essere una “brava moglie”, che nel loro vocabolario significa mantenere a tutti i costi l’apparenza della “famiglia serena”, una falsità rassicurante per gli altri. Non me ne stupisco, d’altronde: quella è la stessa famiglia da cui sono scappata giovanissima, alla prima occasione propizia, per il clima di violenza e cattiveria che vi regnava. Il matrimonio mi è sembrato allora l’unica via di fuga da una realtà tanto opprimente e crudele. Oggi, mi rendo conto che sono incappata in una situazione molto simile a quella da cui pensavo di essermi finalmente liberata.

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        Vorrei fare qualcosa per cambiare la mia condizione, ma, allo stesso tempo, mi sento paralizzata. Mi capita di pensare di essere ancora abbastanza giovane per cambiare il corso della mia vita; ma, in altre occasioni, credo di essere oramai troppo vecchia. Non posso rivelare qui la mia età, perché già mi sento a rischio nell’aver scritto questa lettera, che quasi non credo di essere riuscita a concludere e spedire. Ci ho impiegato mesi per farlo e, non so quante volte, ho cancellato tutto, convinta di essere scoperta. Mi pare che lui – quando mi urla contro e mi guarda con quegli occhi pieni di rabbia – possa intuire persino le mie intenzioni. Se sapesse che ho parlato della mia situazione, certamente mi manderebbe all’ospedale. Eppure, ora che questo messaggio in bottiglia è partito, mi sento sgravata da un indicibile peso.

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ISCHIA E LA VIOLENZA SULLE DONNE

 

Un’immagine allegorica dell’oppressione violenta esercitata sulla donna

 

         Mia coraggiosa lettrice,

la sua lettera arriva dritta come un pugno allo stomaco, poiché, il suo linguaggio limpido e meditato, in definitiva, testimonia perfettamente il carico di violenza, dolore e disgusto che le procura la sua ingiusta condizione.

Vorrei innanzitutto ringraziarla per aver avuto la forza di vincere il suo comprensibile terrore e darmi modo non solo di risponderle, ma anche di far meglio conoscere al pubblico di questo giornale una piaga che affligge il nostro Paese e, secondo le statistiche, in particolar modo proprio la Campania. E se le ragioni di questo tristissimo primato meriteranno, in un altro momento e contesto, una più adeguata riflessione teorica, di certo, io posso affermare che, persino dal limitato osservatorio del mio lavoro psicoterapeutico ad Ischia, ho già ricevuto ampia conferma dell’elevatissimo numero di violenze (psicologiche, fisiche e sessuali) perpetrate sull’Isola, soprattutto ai danni delle donne (e sin dalla più tenera età) – violenze che, nella maggior parte dei casi, ancora restano sottaciute.

Come ha specificato, lei vive un dramma angoscioso, condiviso da molte altre donne: ognuna, però, lo sperimenta in solitudine nella propria sfera personale, quasi sempre tra le mura domestiche, relegata in quell’abbandono generato dal silenzio e dalla collusione, conscia o inconscia, di parenti, vicini, amici, gruppi sociali e, sovente, istituzioni.

La paura, il senso di colpa nel rivendicare il diritto a esistere secondo i dettami del proprio essere più autentico e gli “introietti” delle cattive relazioni familiari di origine fanno in lei il resto, conducendola al sospetto verso se stessa e gli altri, quegli altri a cui potrebbe oggi chiedere aiuto per sostenere la più legittima delle battaglie d’indipendenza e libertà. Ed è proprio a partire da questo punto che le suggerisco di cominciare ad operare un cambiamento di rotta: è bene, infatti, che lei consideri non solamente gli ostacoli “esterni”, cioè, ma anche quelli “interni”, verso il conseguimento di una condizione migliore e più consona al completo sviluppo della sua personalità. Di fatti, una volta avviata una richiesta di aiuto nella corretta direzione, lei sarà ogni giorno meno sola nell’affrontare le inevitabili difficoltà di un confronto con un uomo possessivo, violento e paranoide, che la considera come una proprietà di cui disporre a suo piacimento e arbitrio.

Prima di fornirle alcuni riferimenti pratici per avanzare una concreta richiesta di aiuto (indispensabili nel suo caso), vorrei rammentarle la riflessione di una grande sociologa marocchina recentemente scomparsa: Fatema Mernissi (1940 – 2015), la quale nel suo più testo più famoso, “L’harem e l’Occidente” (2000 – trad. it. Giunti Editore Roma, 2009), spiega con estrema precisione come le società maschiliste tendano sempre a rinchiudere le donne in un qualche tipo di harem (cioè uno spazio chiuso e interdetto: che sia esso edificato in muratura o mediante condizionamenti mentali). In tali contesti, il maschio vede accrescersi il proprio terrore paranoico nei confronti della donna in proporzione all’oppressione che esprime nei confronti del corpo di quella. Il corpo della donna viene di fatti percepito come quella realtà “perturbante” su cu lui ha “proiettato” i principali contenuti della propria Anima: cosicché più questa donna-Anima viene mortificata e più, nell’inconscio maschile, essa assume connotati di minacciosa potenza. Un circolo vizioso paradossale che dà il via a spirali di violenza, le quali, altrimenti, apparirebbero assurde e incomprensibili.

In tutto ciò, solo l’intervento della “Legge” – intesa come espressione psicologica e socioculturale della giustizia (e che, pertanto, va ben aldilà della macchina giudiziaria, dato che interessa la coscienza partecipe e attiva di tutti i membri della società) – può rompere il folle cortocircuito di questa morbosa e quotidiana violenza. Nel caso che la riguarda, le violenze che hanno inquinato la sua esperienza di “figlia” le hanno mostrato un aspetto della “Legge” distruttivo, a causa di una prolungata assenza o, peggio, della sua bieca perversione nel contesto della famiglia di origine. Questa esperienza continuativa e fondante ha rafforzato un Super-io divorante, che le fa provare colpa nel rivendicare i suoi inalienabili diritti di donna e di essere umano. Il Super-io opera inconsciamente, infatti, così: più ottiene e più pretende, più  ruba e più fa sentire ladri le sue vittime. Questa spirale fantasmatica va, dunque, spezzata: a Ischia, la potranno supportare seri professionisti privati nel campo della psicoterapia e centri sociosanitari pubblici specializzati nel lavoro con le donne vittime di abusi e violenze. Per quanto concerne l’ambito legale, poi, vii sono poi avvocati, come Michele Calise e Maria Di Scala, che hanno patrocinato già molte cause di questo genere. Inoltre, varie testate giornalistiche locali e associazioni come la FIDAPA e i Lions si sono spesi e sono tuttora impegnati nella lotta a questa intollerabile piaga.

Lei, mia cara lettrice, da oggi è un pochino meno sola: la sua bottiglia ha raggiunto la riva e qualcuno sta già cominciando a leggere il messaggio.

 

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