CULTURA & SOCIETA'

Ischia,la favolosa vendemmia del 1968!

Di Francesco Mattera*

“Abbiamo bisogno di un’altra stiva , quest’anno l’uva è assaie , e le botti che abbiamo non bastano ! “ Così a tavola, la famiglia riunita, si espresse Giovan Giuseppe, stimando già con tre mesi di anticipoche la vendemmia di quel 1968, per la sua famiglia sarebbe stata straordinaria. Aveva fatto le cose per bene. Tre anni prima aveva incominciato a coltivare la vigna che nonno Francesco aveva donato a mia madre Filomena, sulla Costa del Lenzuolo.

Quella terra si univa alle altre già coltivate, e non erano poche!Un moggio e mezzo di terra lapillosa, sorretta da alte parracine secolari bruciate dal sole. Le viti erano rade e grame, molte parracine erano crollate da anni e mai rialzate, la terra era isterilita , affamata di concime e coperta di rosse cetelle(acetosella), le spalliere in completa rovina . Uno sfacelo quasi totale. Iniziammo già dal primo autunno l’opera di recupero. Io e mio fratello Tonino, nel poco tempo sottratto allo studio, ma anche di domenica, a togliere l’erba da sotto i filari delle viti , a scansare le pietre delle parracine cadute per poi iniziare la loro ricostruzione , a pulire dalle erbacce laddove era necessario. A novembre del primo anno la terra era come un fronte di guerra: ovunque terra rivoltata per ricavare lunghe e profonde trincee dove piantare centinaia di viti americane che Ciuaggiusepp(e)aveva propagginato nell’anno precedente nelle altre vigne che già coltivava. Noialtri si trasportava letame e concime e si aiutava, per quanto possibile , in tutti questi lavori, completati poi dai braccianti che facevano nera tutta la terra scauzandola( dissodandola)a regola d’arte così come esigeva fermamente mio padre.

Per noialtri di famiglia era un’impresa totalizzante : occorreva dare tutti il proprio contributo, compresa mia madre e le mie sorelle, per le cose che ovviamente potevano fare, soprattutto a supporto , curando poi con dedizione assoluta tutte le faccende di casa . Il tutto non passava inosservato ai nostri vicini di terra che registravano incuriositi, ma senza ombre di invidia, tutto quel prodigarsi intorno a quel pezzo di collina. Erano in totale cinque terrazze, ma lunghissime ed affacciate completamente ad est, quindi con un’ottima esposizione al sole: terra eletta per le viti e per uva di qualità! L’obiettivo di Ciugiusepp(e)era quello di imitare il modello dei fratelli Pietro e Vincenzo Mazzella, ovvero il vigneto perfetto! Non lo diceva esplicitamente , ma io lo intuivo ugualmente.

“ Dobbiamo armare le viti tutte con pali e traverse !” –diceva – “ Le canne devono essere un di più … , le parracine in tre,massimo quattro anni devono essere tutte in piedi , non deve mancare nemmeno una vite …“- , e via di seguito. E così avvenne: ogni anno centinaia di pali di castagno acquistati a Casamicciola, a piazza Maio, e trasportati ad Ischia con un grosso camion messo a disposizione da Mario Timone . Poi la sezionatura in spanghe(spranghe) nella segheria di Rocchino Napoleone , di solito nel giorno della vigilia di Natale, e la divisione manuale con zeppe e pioli , eseguita con grande maestria direttamente da mio padre, dei pali più lunghi per ricavarne le perticheda usare come traverse nella costituzione delle spalliere. Destino finale: La terra della Costa del Lenzuolo. Tutto trasportato a spalla sulle strette scale incassate nelle parracine.

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Già nel secondo anno la vendemmia era stata promettente : le viti ancora in salute si erano riprese e avevano prodotto di più e meglio. Intanto gli innesti delle prime viti americane crescevano robusti e lasciavano presagire bene per gli anni a venire. La vigna sembrava lievitare sotto l’incalzare delle cure che vi venivano prodigate, tanto che da via Michele Mazzella, all’altezza degli uffici ex SEPSA, i suoi contorni si delineavano perfettamente rispetto alle terre confinanti, più trascurate e rade. Ma quel 1968 fu un anno veramente straordinario! A metà giugno Giovangiuseppe ordinò alla segheria Telese una fusto di castagno da quatto botti e mezzo (circa 2300 litri). A fine agosto era pronto. Per portarlo in cantina e metterlo sugli imposti(puost(e) i v(e)ttun(e)) si rese necessario smontare alcuni filari di vite, attraversare il terreno di un vicino , e montare una sorta di binario con robuste corde su cui fu fatto scivolare spinto da numerose e robuste braccia. Noi ragazzini che osservavamo a distanza coglievamo la similitudine di quella scena con il tiro a secco di una grossa barca da pesca che spesso ci era dato osservare sulla spiaggia dei pescatori ad Ischia. Intanto la vigna dellaMontagna -così la chiamavano noimostrava sempre più la sua straordinaria prodigalità. Viti sanissime e cariche di uve altrettanto sane e bellissime. C’era dietro un lavoro certosino, che ad alcuni sembrava quasi eccessivo, tanto da far esclamare : “ Ma che date il verderame alle stanghe ?“ , quando all’inizio di aprile, a germogliamento appena iniziato, si dava alle viti già un primo trattamento.

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Ma si sa , le cose buone sono fatte per esser imitate, e qualcuno dei nostri vicini pian pianino incominciò ad adottare lo stesso metodo, o almeno a provarci. Tra questi il mio indimenticato zio materno Pitruccio. A fine agosto l’ultima scorsa (sarchiatura leggera ) della terra per fare in modo di vendemmiare il più possibile sul pulito. Già da luglio si erano piantate corte canne sulle maren(e) ( cigli delle terrazze) per sorreggere i tralci appesantiti dai grappoli per non farli toccare terra. Tutto era pronto per la vendemmia che si iniziava verso la fine di settembre. Ma c’era ancora il tempo per alcune operazioni preliminari. Era tutto un fermento umano che preconizzava il vero fermento del mosto nelle botti ! Occorreva avvicinare alla cantina una buona scorta di legna doppia e fina che sarebbe stata impiegata sia per fare acqua calda per sterilizzare la cantina , sia per le caurare(caldaie) di mosto da immettere nelle botti per arrotondare il gusto del vino. Per il rinnovo delle zeppe con cui si bloccavano i fusti sugli imposti bisognava trovare un ciocco di fico dal legno morbido che si adeguasse bene al legno dei fusti. Nel bosco si dovevano raccogliere rami di mortella e farle seccare al sole per ricavarne scopelleprofumate con cui ripulire i palmenti e l’interno dei fusti grandi, portare sull’aia le botti piccole, i tini ed i t(e)nielliper immergerli nell’acqua e così farli stringere nelle doghe. Un lavoro durissimo, specialmente se fatto tutto a mano e senza l’ausilio delle moderne attrezzature. Pensa, caro e paziente lettore, che l’acqua doveva essere tutta attinta a secchi dalla cisterna, facendo la massima attenzione a non sprecarla. Ma l’igiene non ne soffriva , giammai ! Quando si procedeva alla “ scaurata “della cantina ( letteralmente la riscaldata, ovvero la sterilizzazione con acqua bollente ), ogni attrezzo , anche il più piccolo veniva sbollentato e poi di seguito lavato con acqua fredda. Nella cantina un trattamento speciale veniva riservato ai palmenti ed alle botti che venivano cuffiate( insufflate di acqua e vapore bollenti), stesso cosa dicasi per il torchio e la pigiatrice.

L’acqua bollente veniva spesso profumata inserendovi foglie di melangolo e rametti di mortella. In alcuni casi anche la cenere di legna , specialmente se si trattava di bonificare botti perse (ammalate di vino spunto o di putrido). Chi entrava in cantina durante e appena dopo tale trattamento, magari ancora avvolta nel vapore caldo, sentiva un profumo di pulito pieno e rassicurante. Non un granello di polvere doveva insidiare la vendemmia che si approssimava! Tutto quello che era estraneo al vino doveva essere allontanato . Ma ritorniamo a Ciuagiusepp(e), come viveva questi momenti , cosa lo preoccupava , come si muoveva, lui che aveva la responsabilità su tutto e su tutti ? Certamente con grande ansia, ma anche con una fermezza ed una capacità decisionale notevoli. Era un grandissimo lavoratore e chi gli stava vicino ne era inevitabilmente coinvolto. Quell’anno non avremmo chiesto in prestito i tinelli a Giuseppe i Rengon(e) detto ancheu’barbier(e). Mio padre ne compròuna dozzina di nuovi che prontamente vennero marchiati a fuoco con le sue cifre : M.G.G.Tutte quelle novità mi inorgoglivano, perché davano il senso di un’impresa importante che stava giungendo al suo culmine. Mio padre come al solito si assicurò il servizio con un motofurgone APE da Antonio i trapanarella ,oggi ancora apprezzato tassista, ma all’epoca giovane trasportatore di piazza, e di alcune braccianti – si avete capito bene, donne braccianti ! – per il trasporto dell’uva sul capo protetto da un tortano di stoffa, dalle schiappe vitate alla cantina.

LA VENDEMMIA FAVOLOSA !

E venne il tempo della vendemmia. Si iniziò dalle vecchie vigne di S. Ciro e dintorni perché l’uva destava qualche preoccupazione. Poi tutta la truppa si spostò nella terra della montagna , sulla Costa del Lenzuolo. I grappoli dorati di biancolella, forastera, S.lunardo, Arilla, biancorellone, venivano finalmente sottratti al dominio del sole sotto il quale avevano distillato il dolcissimo nettare contenuto come in tanti cristalli preziosi e rilucenti di vita, negli acini graziosissimi e carichi di una promessa di bontà che non ammette nessun dubbio o incertezza di sorta. Era tanta, tantissima l’uva , e tutta bella, bellissima, da non poter raccontare ! Era una vera e propria processione interminabile quella che scendeva giù dalla vigna verso il furgone di trapanarell(a). Se ne accorsero i trasportatori e le trasportatrici ( ricordo tra esse Maria e Raffaela che scendevano dalla Molara, belle e infaticabili lavoratrici! ). Ma in tutti l’incredulità al cospetto di tanta e bellissima uva, difficile da trovare altrove, cancellava sul nascere qualsiasi remora sulla fatica prolungata cui si era sottoposti. Ma se ne avvidero anche tutte le persone che incontravamo nel tragitto da via Dell’Amicizia alla cantina di S. Ciro. E tutti sostituivano all’inziale sorpresa, una gioiosa esultazione e indugiavano intorno ai tinelli mangiando uva di gran gusto. In fondo era anche la loro uva, per la vicinanza e la simpatia che dimostravano alla nostra famiglia. Il palmento fu presto colmato e altra uva attendeva di essere pigiata. Fu quindi necessario ammuttare ( trasferire il mosto dal palmento alle botti) e l’operazione fu ripetuta più volte nello stretto spazio della cantina.Era un supplemento di fatica, ma per tutti la soddisfazione era tanta per la fantastica abbondanza della raccolta. Tutte le stive ( dotazione di fusti e botti) della cantina vennero riempite, comprese le damigiane , tanto che si provvide a colmare anche il fusto di un nostro parente che aveva prodotto meno uva del solito. Era arrivato intanto un nuovo torchio in cantina. Si trattava per noi di una novità assoluta in quanto la testa premente ( a capa rutrocchio ) era diversa da quelle ordinarie. Si trattava di un martinetto idraulico, per il cui montaggio ci fu un vero e proprio consulto tra gli adulti del gruppo, senza riuscirne a venire a capo. Di soppiatto sottrassi il foglietto di istruzioni e mi diedi a leggerlo, e nel giro di pochi minuti l’arcano fu svelato. Finalmente ci si mise all’opera e occorsero ben due giorni completi con due torchi in funzione. Mio nonno Antonio ( u’sargent(e) ), che durante la vendemmia, solitario, si occupava di raccogliere tutti gli acini caduti per terra, dando conto alla fine di quanti tinelli aveva così recuperato, era particolarmente abile nel dirigere la torchiatura.

Nei giorni successivi si lavava ben bene tutto e si riponevano tutti gli attrezzi. Ma ci si preparava ad una vendemmia minore: la raccolta dell’uva a bella posta lasciata sule viti – di solito la più bella e matura- che insieme all’uva rossa serviva a fare l’acinato. Un vino speciale per occasioni speciali. Ma di questo spero di potervi raccontare in altra occasione. Cosa dirvi ancora, miei cari amici lettori ? Che tante vendemmie ancora si successero negli anni seguenti ! Che ogni volta al termine della vendemmia era bello inebriarsi negli effluvi fermentativi della cantina! E oggi ? Bhe, oggi ci sono due categorie di ischitani. Una che non demorde e continua a coltivare le tradizioni e fieramente coltiva il suo vigneto, piccolo o grande che sia e va orgoglioso della sua vendemmia. La seconda, che ha perso completamente le sue radici , che vendemmia su via Vincenzo Di Meglio, appena dopo i Pilastri, con il furgone accostato ad un camion carico di sporchissime e maleodoranti cassette con uva che viene da chissà dove. Io mi onoro di stare nella prima categoria e spero di ricordare sempre la favolosa vendemmia del 1968.

*agronomo e naturalista

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