LE OPINIONI

IL COMMENTO L’arte dell’argomentare

Devo dare pubblicamente atto, a chi dirige questo giornale, dei grandi passi avanti fatti nell’indirizzare il quotidiano locale su l’ “argomentazione” che deve necessariamente affiancare l’informazione. Per anni si è dibattuto sulla necessità dell’indipendenza della stampa o, viceversa, sulla necessità di dare un preciso indirizzo politico al giornale. Adesso sappiamo che è sbagliato e illusorio pensare di essere sempre e comunque equidistanti dalle diverse espressioni della politica italiana ed è limitativo ingabbiare un giornale negli argini di una ben determinata visione ideologico-politica. Adesso sappiamo che c’è un solo modo per rendere utile ed interessante un quotidiano (ma il discorso vale anche per altri mezzi d’informazione, social network compresi): argomentare, con dovizia di studi, approfondimenti, confronti, qualsiasi tesi si voglia portare a conoscenza dell’opinione pubblica. Nei giorni scorsi ho provato particolare soddisfazione nel constatare che, su un giornale locale, può tranquillamente scrivere un giovane filosofo e manager culturale della caratura di Raffaele Mirelli e farsi capire su temi complessi come “il tempo” e le relazioni che esso può avere con una realtà isolana come Ischia. Ma c’è di più. Giorni fa gli editoriali di Luciano Venia prima e di Salvatore Lauro poi, sebbene partissero da posizioni e formazione politico culturale distanti da quello che penso io, mi davano (e sono convinto hanno dato ai lettori) la consapevolezza che erano supportati da argomentazioni solide, pacate (anche se fortemente critiche verso certe decisioni governative) che non possono non arricchire i cittadini di qualunque parte politica essi siano. Finalmente possiamo ritenere che è possibile “fuoriuscire” dall’obbligo dell’insulto, dell’urlo dei talk show o, dal caps lock di Facebook (letteralmente “blocco delle maiuscole”, figurativamente “uso di toni sempre alti”).

“La rissa in diretta ce l’ha insegnata la TV degli anni 90” afferma Giovanna Cosenza, docente di Filosofia e Teoria dei linguaggi dell’Università di Bologna e membro della Task Force del governo contro l’odio on line; poi, certo, i social hanno ulteriormente acuito il fenomeno in quanto, esprimere in diretta un giudizio e senza guardare in faccia l’interlocutore, spinge ulteriormente a “sovraccaricare” le parole. Lo scrittore Gianrico Carofiglio, autore- tra l’altro – del libro “Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e altre cose”, afferma che “la gentilezza è il più potente strumento per disinnescare le semplificazioni che portano all’autoritarismo e alla violenza”. Noi italiani abbiamo perso, negli ultimi anni, quella che, in termini scientifici, viene chiamata “pazienza cognitiva”, la costruzione lenta e approfondita di un pensiero, senza illudersi di poter esprimere istantaneamente il proprio parere su tutto lo scibile umano, tanto abbiamo internet a cui poterci abbeverare. Il sociologo Derrick De Kerckhove (vincitore del Premio Mc Luhan per gli studi sulla comunicazione) ha scritto che oggi siamo di fronte alla “perdita del referente” e cioè che si passa direttamente dall’affermazione (il significante) alla sua interpretazione (il significato) senza che sia supportata e validata dalle prove (argomentazione). Testimonianze importanti, ma ce n’è un’altra, a mio avviso ancora più forte ed incisiva: quella della filosofa e storica tedesca Hannah Arendt, (che preferiva essere considerata “teorica della politica”) morta nel 1975 e che ci ha lasciato scritti memorabili, tra cui il libro “Socrate”. La studiosa assegnava un ruolo storico fondamentale al processo e alla condanna di Socrate che – a suo avviso – ha rappresentato una svolta di una portata analoga a quella della condanna di Gesù nella storia della religione. Socrate cercò – con tutte le argomentazioni possibili – di convincere i giudici, ma anche i suoi seguaci, della necessità di non sfuggire alla pena di morte e di dimostrare di aver agito sempre nell’interesse della Polis, la città. Poi subentrò Platone che considerò la morte di Socrate la “sconfitta” dell’opinione (doxa in greco) e della “persuasione”, in quanto Socrate non era riuscito a convincere i giudici. A quel punto, Platone si convinse che bisognava contrapporre un criterio di “verità assoluta”, esatto opposto dell’opinione. Platone, dunque, andava alla ricerca delle “idee”, ideale a cui conformarsi per raggiungere la verità. Da qui l’illusione platonica che un manipolo di sapienti ( sophos) potesse governare la città.

Bene, è venuto il momento di riscoprire Socrate e il valore della persuasione e dell’argomentazione. Socrate non è morto invano, ci ha tramandato un metodo, che è l’unico possibile. Sempre la Arendt, ma in un altro famoso libro del 1958 “The Human Condition”( La condizione umana) mette in evidenza come, ad un certo punto, la filosofia (e Platone ci ha messo lo zampino) abbia rinunciato a trattare degli “affari umani”, della sfera pratica, rifugiandosi nella vita contemplativa. Più precisamente ella divide la “vita activa” in tre fondamentali attività umane: il lavoro, l’operare, l’agire (homo laborans, homo faber e “zoon politikon”). Di volta in volta, nel corso della storia, prevale l’una o l’altra di queste tre componenti e cambia l’ordine delle priorità. Allora, prima ci fu il primato dell’agire, nella modernità ha prevalso il segno dell’operare e infine si è affermata la netta prevalenza del lavoro. Ma bisogna chiarire cosa volesse esattamente significare la Arendt per “lavoro” (soddisfacimento delle esigenze vitali), per “operare” (produzione di beni e servizi che vanno al di là dell’ambiente naturale) e “agire” (messa in relazione dell’uomo con gli altri uomini, per il soddisfacimento di beni comuni). Quest’ultimo termine è “l’attività politica per eccellenza”. E “l’agire” si espleta attraverso l’azione e i discorso. La vita attiva prevale sulla vita contemplativa. Dunque la moderna filosofia esclude l’immagine del “sapiente” con la testa nelle nuvole. La filosofia non è quello che rozzamente si dice: “Quella cosa con la quale o senza la quale si rimane tali e quali”.

Abbiamo detto che strumenti dell’agire sono l’azione e il discorso, ove per discorso si intende il ragionamento, l’arte di argomentare. L’azione, da sola , rischia di essere cieca se non controproducente, così come il ragionamento, a cui non faccia seguito una conseguenziale azione, risulta del tutto sterile. E’ questo il dilemma della politica. Non solo fatti, non solo parole, ma parole seguite da fatti coerenti con le parole. E se questo abbinamento necessario deve essere praticato da governanti ed amministratori, è altrettanto vero che i cittadini che “giudicano”, sui mezzi di informazione o al momento di porre la scheda nell’urna elettorale, lo devono ugualmente fare sulla base della combinazione parole-fatti.

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