La finestra sul rifiuto

di Graziano Petrucci

Una cornice. Al convegno al Re Ferdinando su «Europa e sviluppo locale» si è parlato di politiche europee di coesione territoriale e sviluppo locale. Per la verità non c’ero, per questo motivo non posso parlare di ciò che non conosco. Sport in cui, al contrario, si getta gran parte di chi è abituato a spaziare a vanvera in ogni settore della conoscenza di ciò che non conosce. A volte qualcuno ci azzecca, altre volte invece si azzecca come le mosche sul materiale organico (da cui deriva e dipende la tipica esclamazione che inquadra la figura di merda nei suoi specifici contorni). Tuttavia con quel che ha detto l’assessore regionale ai fondi europei, Serena Angioli, ossia che «la Regione Campania dovrà essere un’autorità in grado di leggere il territorio, orientare gli investimenti pubblici e diventare attrattore per i finanziamenti privati» non si può che essere d’accordo. La dottoressa Angioli ha pure aggiunto che «per fare ciò ci vorrà almeno un biennio» e, ancora, «si tratta di un processo, non di un progetto». Ecco, partiamo da questo e non solo a proposito del quadro dei fondi europei ma in modo più ampio. Voglio, in definitiva, focalizzare l’attenzione su ciò che accade a livello isolano. Anzi, farei meglio a dire «ciò che non accade sull’isola». Infatti, l’assessore regionale, probabilmente senza volerlo, ha tracciato ciò che dovrebbe fare – e non fa – il politico “locale”. Le capacità che dimostra questa specie che non è purtroppo in via d’estinzione, spesso, sono inferiori alle incapacità. A parte ovviamente qualche atto degno di nota nel registro quotidiano. Tuttavia siamo ancora lontani – e qui il discorso si amplia e coinvolge non soltanto gli esponenti di categoria ma anche la società in generale- di avviare un processo capace di guardare al medio e lungo termine da calare sul territorio. Restiamo schiacciati da quel che assomiglia, sempre di più, a un puttanaio generale senza una reale possibilità di poterci liberare tanto dal membro della retorica del consigliere o dell’assessore – in qualche caso le orazioni dei sindaci le superano e di molto- quanto da una mediocrità che approfitta di ogni occasione per sfilare in passerella su quotidiani, emittenti locali e dichiarazioni «fuffa» . Che, per intenderci, sono quelle che hanno le caratteristiche dell’ingenuità tipica dei bimbi alle elementari. Questo è ciò che potrebbe dirsi, verosimilmente, del sindaco di Barano, Paolino Buono. Mentre infuriava l’inchiesta sui rifiuti sull’isola – quella che ha coinvolto Oscar Rumolo e Ciummo con la “sua” Ego Eco e il Senatore De Siano che intanto come sappiamo non ha rinunciato alla sua immunità, salvato perciò dal Senato – con un tempo quasi da fare invidia a un centometrista, ha detto «siamo contenti che questa volta non siamo nell’occhio del ciclone in un argomento così importante come i rifiuti». Ha poi aggiunto «noi non abbiamo mai affidato il servizio ai privati e con la nostra società le cose vanno abbastanza bene». Nell’attesa che gli giungesse un “bravo, continua così. Paolino, uno di noi” seguito da un applauso e dal suono di trombe, le stesse che annunciavano l’ingresso degli imperatori a Roma, ci ha viziati con la certezza che la raccolta dei rifiuti si può realizzare con società nostre. Sia chiaro, non che abbia sbagliato con le sue affermazioni, ci mancherebbe. Solo come le mosche, di svolazzo in svolazzo, è stato attratto dal cocktail di “umido” composto per 7/8 di fighezza sindacale e per 1/8 dalle «Lezioni di vita, a cura del maestro-mago Do Nascimento». Comunque, nella vana attesa che i nostri amministratori possano uscire, con un po’ di sforzo, dall’incubo dell’autoreferenzialità, perché non pensare a come attrarre i finanziamenti dei privati proprio nel settore dei rifiuti? Perché non ci capita mai di pensare, come accade in altri paesi, che il rifiuto può diventare fonte di profitto? Non solo potrebbe diventare toccasana per le casse comunali – che, per inciso, sono le nostre – ma addirittura per i conti delle singole famiglie che, da quel rifiuto e nel rispetto delle regole, potrebbero guadagnarci e neppure poco. Perché non cominciamo ad adottare questa visione, invece che essere schifosamente romantici nel mostrare capacità o nel reiterare modelli di gestione che portano soltanto costi per la collettività? Perché chi dovrebbe fare non fa niente per saltar fuori dal fosso delle congetture del “non si può fare” ciò che invece alcuni comuni italiani hanno già adottato da qualche tempo? Forse perché, pensando a una risposta possibile, semplicemente siamo per la conservazione delle cose e sul lungo periodo tutti, alla fine, si rompono le palle di rompere le palle agli ottusi e ai tromboni.

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