«La forza lavoro? Arriva dalla terraferma»
1 maggio, festa dei lavoratori e tempo di riflessioni e considerazioni anche sull’isola. Le tematiche del lavoro in tutte le sue sfaccettature analizzate con il commissario regionale Confsal Rino Pilato. Focus su una serie di cambiamenti in atto partendo proprio da una ormai conclamata difficoltà nel reperire maestranze che sta aprendo la strada ad un fenomeno fin qui inimmaginabile. E poi…

Il primo maggio si celebra la festa dei lavoratori. Posso chiedere, con una metafora, qual è lo stato di salute del lavoro a Ischia, rapportandolo a quello che è invece l’indice attuale nazionale?
«Diciamo che, almeno dai dati che abbiamo da screening, siamo su dei livelli medi. Siamo in linea con quelli che sono stati gli altri anni per quanto riguarda l’assunzione — ovviamente parliamo sempre nel post-Covid — e, diciamo, con le assunzioni stagionali che sono state fatte adesso ci troviamo in linea con quelli che sono i nostri numeri. Forse c’è una tendenza al rialzo per via di tutti questi ponti ravvicinati, come il 25 aprile collegato a maggio. Quindi, come numeri, ci siamo».
Ovviamente nella realtà di Ischia la stagionalità continua a rimanere la statistica predominante. Sotto questo aspetto, dal punto di vista statistico, c’è stato qualche sia pur minimo mutamento?
«No, purtroppo. Tranne alcuni casi – che poi dobbiamo ancora vedere se daranno seguito a quelle che sono le premesse e le volontà manifestate – parliamo ancora della stagionalità. Io sono anche curioso di vedere quest’anno fin dove temporalmente arriveranno le assunzioni, perché non dimentichiamo che una grossa fetta l’anno scorso è finita il 30 settembre, massimo la prima settimana di ottobre. Chissà se quest’anno riusciamo anche a spingerci oltre il 31 ottobre, con il ponte di Ognissanti. Ci sono delle strutture che stanno pensando di allungare il periodo di lavoro, però ad ora sono solo idee, ipotesi e prospettive. Quindi in questo senso non ti posso dare dei dati».
Questa è un po’ scomoda, e forse nemmeno la sto facendo alla figura professionale più indicata. Almeno negli ultimi due anni è stata denunciata dagli operatori del settore turistico una difficoltà a reperire forza lavoro. Sembrerebbe che, rispetto al passato, questa difficoltà non dipenda dal fatto che non si voglia “mettere mano alla tasca”, per essere chiari. Le chiedo: c’è poca voglia di lavorare, le condizioni proposte da chi fa impresa sono poco appetibili o, come spesso succede, la verità sta nel mezzo?
«Tu dicevi che non si voglia mettere mano alla tasca. Sicuramente rispetto a prima, visto che c’è questa mancanza di manodopera – che ancora esiste, ed è evidente – le maestranze mancano. Io ho continue richieste da parte di aziende che cercano personale, anche non qualificato, anche generico, manovali. Il problema è il cambio generazionale. I giovani di adesso non vogliono vivere per lavorare. Mentre prima, le altre generazioni – diciamo la nostra – erano ormai abituate a quei sei mesi di full immersion, senza orari, senza nulla, per poi mettere da parte un gruzzoletto, sbarcare il lunario d’inverno e magari risparmiare qualcosa, adesso la realtà è diversa. Cioè: “Io voglio lavorare, ma non voglio vivere per lavorare”, anche se c’è una buona retribuzione, parametrata a quello che dovrebbe essere l’orario stabilito dal contratto collettivo. Uno va a lavorare, gli viene dato anche qualcosa in più rispetto alla paga base, ma si fa due conti: la mia paga base dovrebbe essere X, io prendo X + Y, però se venissi retribuito secondo tutti i criteri di legge, per ogni euro che faccio sarebbe X + X + Z. Quindi comunque io sono sottopagato. A questo punto: “Se mi volete, mi tenete sei ore e quaranta. Se faccio gli extra, mi dovete pagare gli extra”. E quindi questa è la linea».
È un problema ancora più rilevante nella misura in cui ci troviamo in un territorio circoscritto come quello di un’isola. Quindi magari poi reclutare forza lavoro dall’esterno diventa più complicato, ma ormai necessario.
«Adesso stiamo facendo, secondo me, un altro errore. Non perché voglia essere “discriminatorio”, tra virgolette, con la gente di terraferma, ci mancherebbe altro, e lo dico a scanso di equivoci. Io ho molte aziende che, anche per ruoli importanti e professionalizzati – tipo il manutentore – stanno prendendo persone che vengono dalla terraferma, alle quali devono riconoscere evidentemente anche l’alloggio. Allora l’azienda glielo fornisce perché stanno in quei parametri che ti dicevo prima. Non sto dicendo che il lavoratore debba lavorare tanto ed essere sottopagato, assolutamente. Chiariamo questo concetto. Io dico che, con la realtà che abbiamo oggi, non tutti la pensano allo stesso modo. Noi qua lavoriamo mentalmente in un certo modo, ma ci sono giovani lavoratori che dicono: “A me non conviene. Voglio trovare un altro modo per sbarcare il lunario”. Chi viene da realtà più dure si prende tutto e di più, come è successo quando abbiamo aperto le porte ai cittadini dell’Est. Ricordi? Non avevamo nessuno che volesse fare la badante o la colf. I nostri figli dovevano diventare tutti dirigenti. Abbiamo concesso l’ingresso e ci siamo tagliati una fetta del mercato del lavoro. Ora ci stiamo tagliando un’altra fetta. Non dico cosa per non essere volgare, ma lo lascio intuire. In molte strutture sindacalmente presenti, stanno venendo persone da fuori a lavorare, che si accontentano di una paga più o meno in linea con gli standard. Non con la legge, si badi bene. Per fare le paghe in linea con l’attuale normativa, ogni azienda dovrebbe avere tre turni da 6 ore e 40. Un’azienda con 50 persone dovrebbe averne 150. Allora facciamo due gruppi con piccole percentuali straordinarie. Fino a quando c’è la stagionalità, questi sono i parametri: prendere o lasciare. Se allunghiamo il periodo, si possono fare discorsi diversi. Con la destagionalizzazione si potrebbero avere contratti diversi, agevolazioni alle aziende e anche ai dipendenti. Ma con l’attuale stato dell’arte…».
Le condizioni di lavoro del lavoratore medio isolano, secondo voi come sindacato, sono migliorate? C’erano imprenditori che in passato oggettivamente esageravano “spremendo” e sfruttando i dipendenti o collaboratori con paghe da fame. Oggi questo fenomeno si è finalmente ridotto?
«Sicuramente si è ridotto. Le pecore nere sono diminuite, ma perché sono state costrette a diminuire. Perché già adesso chi è borderline fa fatica a trovare personale. Figurati chi si comportava ben al di sotto del limite. Le condizioni sono migliorate anche perché c’è maggiore conoscenza normativa, anche da parte del lavoratore straniero, che molte volte – aperta e chiusa parentesi – ne sa anche più dell’italiano».
Spesso la figura del sindacato, a Ischia come altrove, viene messa in discussione. Perché spesso si pensa che sia più vicino al datore di lavoro che al lavoratore.
«Sì, e a questa domanda fornisco una risposta molto semplice: il potere del sindacato è finito con l’abrogazione dell’articolo 18. Prima basavamo tutto sul licenziamento illegittimo, che fosse discriminatorio, politico, o per giusta causa. Su quello trovavamo la quadra, la mediazione.
Ora la materia del contendere che posso gestire è molto limitata. Non ho più quella spada di Damocle sul datore di lavoro. Ci sono i contratti a tutele crescenti per gli stagionali: li puoi licenziare pagando poche mensilità. Il sindacato oggi può solo provare a salvare il posto, se il lavoratore vuole conservarlo. E devo dare un colpo al cerchio e uno alla botte per evitare un contenzioso. Però, devo dire, alcune aziende lungimiranti stanno usando strumenti come la contrattazione di secondo livello, che porta benefici a entrambi: detassazione dei premi, buoni pasto, conversioni in welfare (asili, medici, dentisti…). Questa è la realtà. La classica frase “il sindacato si è venduto” è quella che sentiamo sempre. Ed è anche la sintesi della morte del sindacato».
Se dovessi trovare uno slogan per il Primo Maggio “made in Ischia”, quale sarebbe?
«In questo momento la realtà ischitana è quella che è, riflette quella degli anni scorsi. Ci sono piccoli passi in avanti, soprattutto nella qualità. Quindi la mia pillola è doppia: investire nella qualità e cercare di centrare l’obiettivo di una stagione più lunga. Però, come tu da esperto cronista sai, non basta che lo voglia l’imprenditore: deve muoversi tutto il tessuto quindi quello politico, commerciale, sociale».
L’ultima domanda è un po’ maliziosa: il lavoratore è pronto? Perché c’è l’idea che, nonostante i tempi difficili, molta gente con sei mesi di lavoro si accontenta.
«Ti ho risposto prima. Se il lavoratore di terraferma, che ha difficoltà a mettere il piatto in tavola, si prende ciò a cui noi rinunciamo… E poi, basta che quel lavoratore sia pronto a fare sei mesi e tre di NASPI, e va avanti. Però va detto anche questo: tanti lavoratori che non vogliono andare in azienda perché ritengono che le condizioni non siano adeguate, li trovi nei B&B e nelle affittacamere.
Fatti due conti: in un B&B le spese sono diverse, i controlli sono diversi, ma più o meno i soldi sono gli stessi, mentre le ore sono dimezzate. Non ci sono turni pranzo e cena. La cameriera la trovi lì, il manutentore a chiamata, chi serve la colazione pure. E poi ci sono gli extra. Gli extra vanno anche nelle grandi aziende, dove vengono pagati prima… e magari pure in nero. Ecco magari su questa linea sono pronti in tanti…».